Nell’ambito della riforma della legge fallimentare degli anni 2006-2007 è stata fissata la regola che il giudizio arbitrale pendente al momento della dichiarazione di fallimento non può essere proseguito laddove il contratto che contenga il patto compromissorio sia stato sciolto ai sensi dell’art. 72 L. Fall. Leggendo in positivo la disposizione contenuta nell’art. 83-bis deve ritenersi che quando, invece, subentra nel contratto che contenga una clausola compromissoria il curatore del fallimento assume la posizione di parte nel procedimento arbitrale pendente o che verrà iniziato o proseguito.
Considerato che in questi casi il curatore non ha la libera disponibilità del diritto in contesa, si pone il problema di individuare i mezzi istruttori utilizzabili nel procedimento arbitrale.
As part of the reform of the bankruptcy law of the years 2006-2007, arbitration proceedings pending at the time of the declaration of bankruptcy can not be continued if the contract containing the arbitration clause has been dissolved by the bankruptcy trustee, pursuant to art. 72 of bankruptcy law.
According to the provision contained in art. 83-bis when, instead, the bankruptcy trustee becomes part of the contract that contains an arbitration clause, the bankruptcy trustee assumes the position of a party in the arbitration proceedings pending or that will be initiated or continued.
Given that in these cases the bankruptcy trustee is not entitled to dispose of the right in contention, the problem arises of identifying evidences that are allowed in arbitration proceedings.
1. Brevi considerazioni preliminari sui caratteri dell’istruzione probatoria nel procedimento arbitrale - 2. I limiti della istruzione probatoria nel caso di subentro del curatore nel contratto - 3. Le prove precostituite - 3.1. I libri e le scritture contabili - 3.2. La scrittura privata e la sua verificazione - 3.3. La querela di falso - 4. Le prove costituende - 4.1. La prova testimoniale - 4.2. Il giuramento - 4.3. La confessione e l’interrogatorio formale - 4.4. L’interrogatorio non formale delle parti - 4.5. La consulenza tecnica - 4.6. Richiesta di informazioni alla pubblica amministrazione, ispezione ed esibizione - 4.7. Fatti notori e massime di esperienza - 4.8. Le prove atipiche e la testimonianza scritta - 4.9. Gli argomenti di prova - 4.10. Il rendimento dei conti - NOTE
1.1. Il nostro Codice di rito consente alle parti e agli arbitri di organizzare liberamente la procedura, individuando moduli che non sempre corrispondono a quelli del processo civile ordinario. Segnatamente per quanto riguarda la fase dell’istruzione probatoria i regolamenti arbitrali possono stabilire una disciplina flessibile, che può adattarsi alle differenti tradizioni giuridiche. L’art. 816-bis c.p.c. tuttavia pone un limite al potere regolamentare: il contraddittorio deve essere attuato con il riconoscimento alle parti di ragionevoli ed equivalenti possibilità di difesa. Come pure va assicurato il rispetto del principio dell’imparzialità del giudice [1]. Considerata l’analogia con il processo ordinario di cognizione, le regole di valutazione e quelle sulla rilevanza ed i limiti di ammissibilità della prova dovrebbero essere le medesime per il giudice e per gli arbitri, tenendo conto di taluni principii generali sicuramente inderogabili. Innanzitutto quello indicato dell’art. 115 c.p.c.: “il giudice deve porre a fondamento della decisione le prove proposte dalle parti, nonché i fatti non specificatamente contestati dalla parte costituita”. Dalla seconda parte della disposizione si ricava il principio di non contestazione specifica per effetto del quale la mancata contestazione dei fatti allegati dalla controparte determina, in relazione ai medesimi fatti, una relevatio ab onere probandi [2]. Essendo contenuto tra le disposizioni generali del I Libro del Codice di procedura civile, tale principio dovrebbe trovare applicazione pure nel giudizio arbitrale, anche se al riguardo è stato osservato che l’art. 115 c.p.c., essendo inserito nel capitolo intitolato “Dei poteri del giudice”, si dovrebbe riferire esclusivamente all’attività dei giudici ordinari [3]. Sempre il 2° comma dell’art. 115 c.p.c. introduce la nozione di “fatto notorio” come quello che rientra nella comune esperienza dell’uomo di media cultura. Per il giudizio arbitrale dovrebbe inoltre valere la regola che “il giudice può (…), senza bisogno di prova, porre a fondamento della decisione le nozioni di fatto che rientrano nella comune esperienza”. Va infine tenuto presente che la L. 10 novembre 2014, n. 162 attribuisce alle parti il potere di chiedere, con istanza congiunta, [continua ..]
2.1. Nell’ambito della riforma della legge fallimentare degli anni 2006-2007, il legislatore ha introdotto una nuova norma di carattere processuale (art. 83-bis) che rappresenta la risposta alle lacune ed ai dubbi interpretativi viene infatti fissata la regola che il giudizio arbitrale pendente [9] al momento della dichiarazione di fallimento non può essere proseguito laddove il contratto che contenga il patto compromissorio sia stato sciolto ai sensi dell’art. 72 L. Fall. In tal caso la controversia oggetto della convenzione arbitrale dovrà essere necessariamente decisa dall’autorità giudiziaria ordinaria e gli eventuali rapporti di debito/credito, effetto dello scioglimento, dovranno essere disciplinati esclusivamente dalle norme sul procedimento di formazione dello stato passivo. Leggendo in positivo la disposizione contenuta nell’art. 83-bis deve ritenersi che laddove subentri nel contratto che contenga una clausola compromissoria il curatore assume la posizione di parte nel procedimento arbitrale pendente o iniziato [10] o proseguito. Ed infatti il curatore nei cui confronti sia stato riassunto il giudizio interrotto ovvero che abbia attivato ex novo il giudizio arbitrale o lo abbia lui stesso proseguito dopo l’interruzione è comunque vincolato da tutte indistintamente le singole clausole contenute nel contratto nel quale sia subentrato ex art. 72 L. Fall., compresa la clausola compromissoria, non essendogli consentito di avvalersi soltanto di alcune di esse [11]. Per le notevoli implicazioni di carattere generale e processuale sui rapporti tra arbitrato e fallimento va infine ricordato che quando il curatore subentrato nel rapporto contrattuale attiva il giudizio arbitrale o riassume quello interrotto ex art. 43 L. Fall. [12], pur subentrando al fallito non ha la libera disponibilità del diritto in contesa. 2.2. In considerazione del carattere poliedrico del ruolo svolto dal curatore nel processo di fallimento si rende necessario chiarire preliminarmente la sua posizione con specifico riferimento ai rapporti giuridici che confluiscono nella procedura concorsuale, tenendo conto dell’interesse pubblico sotteso e della conseguente indisponibilità delle questioni oggetto di valutazione da parte degli arbitri. Secondo la tradizionale interpretazione della dottrina il curatore del [continua ..]
Prima dell’introduzione dei nuovi artt. 816-bis e 816-ter c.p.c. nella normativa vigente (artt. 816 e 819-ter) si faceva riferimento soltanto all’“assunzione della testimonianza”. Da qui la tendenza a ritenere che nel procedimento arbitrale non sarebbero più consentite alterazioni e modifiche al modello legale, con il conseguente obbligo per gli arbitri di rispettare l’intero regime delle prove, soprattutto quelle precostituite, trattandosi di regole di diritto per la formazione della decisione [15]. Nel nuovo art. 816-ter c.p.c. il legislatore del 2006 ha trasfuso le disposizioni già contenute nel 5° comma dell’art. 816 c.p.c. e nell’art. 819-ter c.p.c., disposizione nella quale erano stati recepiti l’orientamento dottrinario e giurisprudenziale sulla possibilità di utilizzare nel procedimento arbitrale la consulenza tecnica e la richiesta di informazioni della pubblica amministrazione, così come regolati nel Codice di rito civile.
Per quanto riguarda l’efficacia probatoria delle scritture contabili obbligatorie (libro giornale, libri degli inventari ed altre scritture richieste dalla natura dell’impresa), l’art. 2710 c.c. attribuisce a quelle regolarmente tenute efficacia probatoria tra imprenditori per i rapporti inerenti all’esercizio dell’impresa. Ma questa regola non trova applicazione nei confronti del curatore del fallimento che agisca non quale successore in un rapporto precedentemente facente capo al fallito, bensì nella sua funzione istituzionale di gestore del patrimonio del fallito a tutela dei creditori e quindi in posizione di terzietà. Sicché non può, in tale veste, essere annoverato tra i soggetti considerati nell’art. 2710 c.c., operando tale norma soltanto tra imprenditori che assumono la qualità di controparti in relazione a rapporti d’impresa. Con la conseguenza che gli estratti autentici notarili dei libri contabili non sono idonei a dimostrare nei confronti del curatore, terzo rispetto al debitore, l’effettiva sussistenza del credito vantato [16]. Quanto alle ipotesi in cui il curatore proponga domanda giudiziale di adempimento di obbligazioni contratte dal terzo nei confronti dell’imprenditore in epoca antecedente al fallimento, si suol ritenere che laddove tale organo non agisca in sostituzione dei creditori al fine della ricostruzione del patrimonio originario del fallito (e, dunque, nella veste processuale di terzo), ma eserciti un’azione rinvenuta nel patrimonio del fallito stesso viene a porsi nella sua stessa posizione sostanziale e processuale. Precisamente in quella che avrebbe avuto il fallito agendo in proprio al fine di acquisire poste attive di sua spettanza già prima della dichiarazione di fallimento ed indipendentemente dal dissesto successivamente verificatosi il terzo convenuto in giudizio dal curatore può legittimamente opporgli tutte le eccezioni opponibili all’imprenditore (prima del suo fallimento), comprese le prove documentali da questo provenienti, senza i limiti di cui all’art. 2704 c.c. giusto disposto degli artt. 2729, 2722 e 2724 c.c. Ne consegue che l’art. 2710 c.c. trova applicazione anche nel caso in cui una delle parti sia stata dichiarata fallita, quando si tratta di provare un rapporto obbligatorio sorto in periodo antecedente alla [continua ..]
L’indimenticabile Edoardo Ricci, che ha fornito rilevanti contributi allo studio dell’arbitrato, era dell’avviso che la verificazione della scrittura privata fosse inammissibile nel giudizio arbitrale: innanzitutto perché la proponibilità della richiesta di verificazione in via principale (art. 216, 2° comma, c.p.c.) postulerebbe la stipula tra parti di un compromesso ad hoc; peraltro trattandosi di materia per sua natura insuscettibile di transazione (ex art. 1966 c.c., 2° comma) si porrebbe l’ostacolo della incompromettibilità della lite. Di diverso avviso Carmine Punzi il quale dalla considerazione che non si può subordinare e condizionare la proposizione di un’istanza istruttoria al consenso della controparte il cui comportamento, (mancato riconoscimento o disconoscimento espresso della scrittura) ha reso indispensabile l’acquisizione della prova [20]. Sicché non appare necessario un compromesso ad hoc, né tantomeno la formazione di un “accordo” tacito sulla “competenza” degli arbitri ai sensi dell’art. 817, 3° comma, c.p.c. In ordine alla incompromettibilità della lite (in quanto si tratterebbe di materia insuscettibile di transazione) è stato autorevolmente osservato che nel procedimento di verificazione della scrittura non si procede all’accertamento della falsità del documento (lo riprova il fatto che in caso di rigetto dell’istanza non vi è dichiarazione di non autenticità) [21]. Da qui la conclusione che laddove venga formulata la richiesta istruttoria di verificazione di una scrittura privata, il procedimento arbitrale non va sospeso (ai sensi degli artt. 819 e 819-bis c.p.c.) e gli arbitri devono pronunciarsi sulla provenienza della scrittura [22]. Preso atto che la maggior parte della dottrina ritiene che, in presenza di una richiesta istruttoria di verificazione di una scrittura privata, agli arbitri è consentito istruire l’istanza e pronunciarsi sulla provenienza della scrittura, occorre verificare se in seguito al subentro del curatore nel contratto ed alla sua partecipazione al giudizio arbitrale come parte a tutti gli effetti, si possa giungere alle medesime conclusioni. Vale anche qui la regola che in caso di scritture private irrilevanti ai fini della decisione del giudizio arbitrale [continua ..]
Laddove nel giudizio arbitrale una delle parti sia il curatore il problema dell’ammissibilità o meno della verificazione della scrittura privata va collegato con quello della querela di falso. La dottrina pressoché unanime esclude che gli arbitri possano pronunciarsi sulla querela di falso (mezzo di prova del quale peraltro non vi è cenno nell’art. 816-ter). Si è in primo luogo osservato che, essendo il pubblico ministero soggetto necessario nel giudizio civile sul falso ex art. 221, 3° comma, c.p.c., tale partecipazione non sarebbe configurabile nel giudizio arbitrale. Si aggiunga che il giudizio di falso costituisce materia non assoggettabile a transazione e quindi non compromettibile ai sensi dell’art. 806 c.p.c. In questo stato di cose è da escludere che i giudici laici possano conoscere delle questioni di falso, neppure in via incidentale. Sicché, una volta che nel corso del procedimento arbitrale sia stata proposta querela di falso, si renderà necessario preliminarmente interpellare la parte che ha prodotto l’atto pubblico per verificare se intende avvalersene in giudizio e, in caso affermativo, se il documento assuma rilevanza ai fini della decisione della causa sospendere il processo arbitrale ai sensi dell’art. 819-bis, n. 2, c.p.c [23]. Alla stessa stregua della scrittura privata, se il documento di cui si denuncia la falsità sia inopponibile al curatore del fallimento, la querela di falso (proposta in via principale dalla parte in bonis) dovrà dichiararsi inammissibile, senza necessità di sospensione del procedimento arbitrale.
Insieme alla consulenza tecnica e alla richiesta di informazioni scritte alla pubblica amministrazione, la prova testimoniale è l’unico mezzo istruttorio regolato dall’art. 816-ter. Le modalità per l’assunzione sono quelle stabilite nel Codice di procedura civile, senza alcun rigore formale; gli arbitri possono assumere la testimonianza presso di sé o nell’abitazione o ufficio del testimone, se questi vi consente. Si discute se nell’ammettere la prova testimoniale l’arbitro deve pretendere la rigorosa capitolazione dei fatti ex art. 244 c.p.c. Al riguardo è stato autorevolmente osservato che tale modo di deduzione appare preferibile per la chiarezza nella valutazione della rilevanza e ammissibilità e per consentire una compiuta difesa a controparte [24]. Si è visto che uno dei limiti più significativi dell’istruttoria arbitrale è costituito dalla carenza di poteri coercitivi nell’acquisizione delle prove. Ed infatti i mezzi di cui dispongono i giudici ordinari, quali organi dello Stato, ai fini dell’applicazione di misure coercitive anche mediante ricorso all’assistenza della forza pubblica, sono in linea di principio inaccessibili agli arbitri, quali organi privati (si ricordi il brocardo “gli arbitri hanno la bilancia ma non hanno la spada”). Ciò comporta che agli arbitri è precluso acquisire la deposizione del testimone renitente. L’impossibilità per il giudice laico di multare il teste non comparso o di ordinarne l’accompagnamento coattivo e l’inapplicabilità generalmente riconosciuta del deterrente della sanzione penale per il rifiuto del giuramento da parte del teste (art. 366, 3° comma, c.p.) o per il testimone falso o reticente (art. 372 c.p.), hanno sempre inciso notevolmente sulla utilità di tale mezzo istruttorio nel processo davanti ai giudici laici. Vero è che l’art. 816-ter, introdotto dal legislatore del 2006, prevede che “se un testimone rifiuta di comparire davanti agli arbitri, questi, quando lo ritengano opportuno secondo le circostanze, possono chiedere al presidente del tribunale della sede dell’arbitrato, che ne ordini la comparizione davanti a loro”. Ma tale norma difficilmente può trovare concreta attuazione: se il testimone non dà seguito [continua ..]
Si discute se nell’arbitrato trovi ingresso il giuramento della parte nelle tre forme di decisorio, suppletorio ed estimatorio. A sostegno della tesi negativa si è detto che il giuramento è incompatibile con il patto compromissorio, atteso che contrasta con la volontà delle parti di affidare la controversia al giudizio di persone di loro fiducia e di esse soltanto; segnatamente il deferimento del giuramento implicherebbe una vera e propria esautorazione delle funzioni tipiche degli arbitri [27]. A conclusioni opposte perviene chi, negando ogni fondamento razionale a qualsiasi differenza fra la disciplina probatoria dell’ordinario processo civile e quella dell’arbitrato rituale, attribuisce efficacia vincolante alle dichiarazioni giurate assunte dagli arbitri, ritenendo così, implicitamente, che il giuramento sia compatibile con il processo arbitrale [28]. Il primo indirizzo sembra eccedere sotto due riflessi. Quanto al giuramento decisorio, il deferimento da parte di un litigante e la disponibilità a prestarlo (o il riferimento) da parte dell’altro escludono ogni obiezione contro l’impiego, nella cognizione dell’arbitro, dell’asserto giurato. Ne, d’altra parte, ha in sé pregio l’assunto che l’arbitro che giudichi in base a giuramento si spogli della decisione: come ogni altro giudice, egli decide sulle prove. Il secondo indirizzo contiene l’eco della concezione “giurisdizionalistica” dell’arbitrato rituale, per vero difficilmente omologabile a fronte della concezione privatistica del fenomeno. Rimane l’esigenza di individuare, se c’è, la ragione determinante di un regime specifico del giuramento rispetto all’arbitrato. Tale regime non può che essere quello della inammissibilità del giuramento non autorizzato dai litiganti. E la ragione è che, nel processo innanzi al giudice dello Stato, i contendenti sono presidiati dalla sanzione penale e dalle conseguenze restitutorie dello spergiuro; mentre tale garanzia di certo non li assiste in ordine al giuramento innanzi al giudice privato, atteso che la falsa dichiarazione non potrebbe essere assoggettata alle conseguenze previste dal Codice penale [29]. A ben guardare, sono proprio le richiamate sanzioni a giustificare il valore [continua ..]
Nel giudizio arbitrale non trovano ingresso la confessione spontanea, né quella provocata da interrogatorio formale. Una volta escluso che nei processi in cui si controverta su rapporti di natura patrimoniale il curatore possa disporre di un diritto proprio del fallimento non è configurabile una sua confessione spontanea, come non è consentito agli arbitri di ammettere l’interrogatorio formale, trattandosi di mezzi istruttori ai quali la legge riconosce l’efficacia di prove legali che devono provenire da persone capaci di disporre del diritto oggetto della controversia. E nella specie sarebbero diretti a provocare l’ammissione di fatti sfavorevoli alla massa dei creditori. Non manca tuttavia chi riconosce la possibilità per il curatore di prestare confessione e quindi l’ammissibilità dell’interrogatorio formale a lui deferito, a condizione che la confessione e/o la risposta all’interrogatorio siano precedute da specifici provvedimenti autorizzativi degli organi giudiziari del fallimento, non essendo sufficiente a tale scopo la generica autorizzazione a stare in giudizio [36]. Un altro aspetto che conviene mettere in rilievo accanto a quello sopra illustrato riguarda gli effetti della confessione giudiziale o stragiudiziale resa prima della dichiarazione di fallimento di una delle parti. Muovendo dalla considerazione che anche nel processo arbitrale instaurato o proseguito dal curatore, quest’ultimo subentra a tutti gli effetti nella posizione del fallito, si è ritenuto che la confessione resa dalla controparte produca i medesimi effetti che le sono propri, riflettendosi sul curatore che, assume la lite e che pertanto può utilizzarla [37]. Laddove, invece, la confessione sia stata resa dalla parte successivamente dichiarata fallita, va considerato che il confidente deve disporre del diritto non solo nel momento in cui rende la confessione, ma anche quando gli effetti di essa si ripercuotono sul rapporto sostanziale dedotto in giudizio [38]. Sicché non è configurabile alcun effetto legale vincolante alla dichiarazione confessoria proveniente dal fallito, che nella sua peculiare posizione non è parte nei processi in cui si controverta sui rapporti di natura patrimoniale (e che, quando interviene, non interloquisce nel merito di essi), né ha la capacità di [continua ..]
Diversamente dal tradizionale interrogatorio delle parti, diretto a provocare la confessione, l’interrogatorio libero ha la funzione di chiarimento delle allegazioni di fatto. Non può essere disposto se non come mezzo sussidiario di accertamento, quando le risultanze del procedimento lascino qualche margine di dubbio, colmabile attraverso le dichiarazioni delle parti. Considerato che questo mezzo istruttorio presenta notevoli analogie con il giuramento suppletorio e che può anche dare luogo alla confessione, è da ritenere che non possa trovare ingresso nelle controversie davanti ad un collegio arbitrale in cui sia parte una curatela, stante l’interesse pubblico sotteso alla procedura fallimentare e la conseguente indisponibilità delle questioni sulle quali si controverte e per le quali il curatore non ha la disponibilità dei diritti della massa. In ogni caso va escluso che gli arbitri possano disporre l’interrogatorio non formale del curatore che eserciti un diritto proprio del fallimento.
Come detto, insieme alla prova testimoniale ed alla richiesta di informazioni alla pubblica amministrazione, la consulenza tecnica è l’unico mezzo istruttorio regolato dall’art. 816-ter del nostro Codice di rito, dove si legge che “gli arbitri possono farsi assistere da uno o più consulenti tecnici e che possono essere nominati consulenti tecnici sia persone fisiche, sia enti”. Si è dubitato se la consulenza tecnica d’ufficio abbia la natura di vero e proprio mezzo di prova, trattandosi di uno strumento di integrazione delle conoscenze del giudice nella interpretazione delle risultanze di prove già acquisite e nella risoluzione di questione che comportino specifiche conoscenze tecniche. Sicché sarebbe soltanto destinata ad offrire un ausilio di carattere tecnico all’attività del giudice. Compito essenziale del consulente tecnico è quello di fissare le regole di esperienza in funzione dell’onere della esigenza probatoria [40]. Ciò spiega perché la consulenza tecnica rientra nel potere discrezionale del giudice anche in mancanza di un’apposita istanza o sollecitazione delle part; tant’è che la sua ammissione non soggiace a preclusioni e decadenze istruttorie. Rimane da chiarire se, su istanza di parte o d’ufficio, sia possibile surrogare la deficienza di prova con una consulenza tecnica disposta dagli arbitri. La risposta non può che essere negativa. Diversamente opinando si finirebbe con il consentire a chiunque di instaurare temerariamente un procedimento arbitrale anche quando non abbia la prova della fondatezza delle proprie pretese, per chiedere agli arbitri di abdicare alla loro imparzialità surrogandosi in toto agli incombenti probatori di chi propone la domanda. Merita di essere ricordato quanto sul punto ha osservato Salvatore Satta: “le prove devono preesistere al processo, non essendo concepibile che la parte agisca in giudizio senza alcuna prova, per poi chiedere al giudice che la prova gliela fornisca lui, attraverso un esperimento peritale” [41]. Sicché, con specifico riferimento ad un giudizio arbitrale promosso da una curatela (si pensi ad una richiesta di consulenza calligrafica relativa ad un documento che il curatore assume non autografo), in difetto di altri elementi non è consentito surrogare la [continua ..]
Si ritiene comunemente che sia inibito agli arbitri di richiedere informazioni alla pubblica amministrazione e di disporre l’ispezione ovvero l’esibizione di cose o di documenti, trattandosi di mezzi istruttori che richiedono quello ius imperii proprio dell’autorità giudiziaria [43]. Non si può tuttavia trascurare che la mancanza di poteri coercitivi non impedisce ai giudici laici di ordinare alle parti di avvalersi di tali mezzi istruttori, rimanendo fermo che dal rifiuto senza giustificato motivo il collegio arbitrale potrà soltanto desumere argomenti di prova. Segnatamente laddove i destinatari delle richieste degli arbitri siano soggetti terzi, si deve escludere che nei loro confronti i giudici laici possano emettere ordini (e, a maggior ragione, condanne a carico di terzi al pagamento delle pene pecuniarie previste dall’art. 118, 3° comma, c.p.c.). Maggiori sono le probabilità che venga dato seguito all’ordine degli arbitri quando i destinatari della richiesta siano organi della pubblica amministrazione che non dovrebbero sottrarsi all’obbligo di fornire determinate informazioni [44]. Ed infatti, il legislatore del 2006 nell’art. 816-ter, 6° comma, c.p.c. ha precisato espressamente che gli arbitri possono chiedere alla pubblica amministrazione, le informazioni scritte relative agli atti e documenti della amministrazione stessa che è necessario acquisire al giudizio. Il testo letterale della norma non ripropone l’inciso “d’ufficio” contenuto nell’art. 213 c.p.c. Ciò lascerebbe ritenere che tale mezzo istruttorio possa essere disposto soltanto su istanza di una delle parti del procedimento arbitrale. Ma sembra più logico riconoscere anche agli arbitri la facoltà di disporre d’ufficio la richiesta di informazioni. Rimane fermo che, trattandosi di un mero invito degli arbitri [45] e mancando un dovere di cooperazione da parte della pubblica amministrazione, nel caso di rifiuto o, comunque, di mancata risposta non sarebbe possibile ricorrere al Presidente del Tribunale per ottenere l’emanazione di ordini di sorta [46]. Ciò induce in sostanza a configurare il provvedimento come semplice invito o richiesta, più che alla stregua di vero e proprio ordine [47]. L’esibizione disciplinata dagli [continua ..]
Nell’ordinario processo civile qualunque allegazione deve essere provata, né il giudice può conoscerne di scienza propria (vedi art. 116, n. 2). Vale anche per gli arbitri il divieto dell’impiego della scienza privata nella ricostruzione dei fatti: e non potrebbe essere diversamente, dato che l’uso di private informazioni si risolverebbe in modo inevitabile nella violazione del principio del contraddittorio. Una sola eccezione contiene la legge: nel capoverso dell’art. 115 c.p.c. si dice che il giudice può, senza bisogno di prova, porre a fondamento della decisione le nozioni di fatto che rientrano nella comune esperienza. La disposizione consacra il principio espresso nell’antica formula notoria non egent probatione, generalmente accolto anche prima del Codice dalla pratica giurisprudenziale. Sicché la prova non è necessaria per i fatti notori, non essendovi ragione di prevedere una disciplina diversificata rispetto al processo ordinario, dove vige la regola che per rendere notorio un fatto non basta la conoscenza di un individuo singolo di una pluralità di individui ma occorre che la notizia del fatto sia in possesso della collettività. Quindi non deve trattarsi di una esigua quantità di persone, perché in tali casi la conoscenza manterrebbe carattere privato e non assumerebbe quello di notorietà, tale da imporre la relativa notizia al giudice e alle parti [50]. Va tuttavia considerato che per l’arbitro il concetto di notorio può essere più ampio; ciò soprattutto con riferimento alla c.d. notorietà locale, allorché, ad esempio, gli arbitri siano tutti di un determinato luogo. È pertanto consentito ai giudici laici di porre determinati fatti a base della decisione, senza che di essi sia stata fornita la prova, qualora dimostrino che rientravano nella comune conoscenza. In questi casi le parti sono manlevate dall’onere di provare fatti storici determinati sulla cui esistenza si riscontra pacificamente una oggettiva condivisione e accettazione. Per le regole di esperienza, il discorso può essere in parte analogo, essendovi anche qui un ampiamento della scienza degli arbitri, allorché essi siano stati scelti in relazione alle loro particolari conoscenze tecniche. Ciò comporta che i giudici privati possono [continua ..]
Nei regolamenti di arbitrato o nelle convenzioni arbitrali le parti possono estendere il novero dei mezzi di prova utilizzabili, consentendo ai giudici laici di porre a base del proprio convincimento le c.d. prove atipiche, così come si verifica da qualche tempo a questa parte nell’ordinario processo davanti l’autorità giudiziaria [51]. È da chiedersi se rientri tra le prove atipiche anche la testimonianza scritta prevista per l’arbitrato dall’art. 816-ter c.p.c. Anche a voler trascurare il grave inconveniente della mancanza di adeguate garanzie di veridicità delle risposte ai quesiti degli arbitri fornite per iscritto senza la presenza delle altre parti e dei difensori e conseguente attendibilità delle risposte, rimane sempre il problema della carenza dei poteri imperativi in capo ai giudici non togati, che consente al testimone di rifiutarsi di fornire la deposizione scritta senza incorrere in sanzioni di sorta [52]. In questo stato di cose è da presumere che di tale possibilità si avvarranno i curatori chiamati a rendere la testimonianza scritta nel procedimento arbitrale, ad evitare le problematiche autorizzazioni del g.d.
Carlo Lessona distingueva le prove dalle presunzioni, dagli indizi, dai sospetti, dagli ammennicoli [53]. Cosa diversa è il semplice argomento di prova, termine con il quale il legislatore ha voluto indicare gli elementi di convincimento che non sono autosufficienti per decidere, ma possono solo rafforzare il ragionamento fatto sulla base di vere e proprie prove. L’art. 116, 2° comma, c.p.c. stabilisce che il giudice può desumere argomenti di prova dalle risposte delle parti in sede di interrogatorio libero, dal loro ingiustificato rifiuto a consentire ispezioni o dal loro generale contegno nel processo. Si tratta in sostanza di conseguenze di comportamenti che la parte tiene in corso di causa. Gli argomenti di prova si differenziano nettamente dalle prove stricto sensu in quanto costituiscono solo elementi sussidiari e integrativi che il giudice può utilizzare per valutare le altre prove. Anche nell’ipotesi di giudizio arbitrale nel quale sia parte il curatore di un fallimento dovrebbe consentirsi ai giudici laici di avvalersi degli argomenti di prova, pur se destinati a svolgere una funzione meramente accessoria nel contesto della valutazione dei mezzi istruttori. Ed infatti rimane ferma l’osservazione di carattere generale che gli arbitri sono comunque tenuti al rispetto dell’intero sistema positivo delle prove, quali regole di diritto per la formazione della decisione [54]; sicché devono pretendere l’adempimento rigoroso della prova dell’esistenza dei fatti principali rilevanti come fatti costitutivi, modificativi, impeditivi o estintivi. Va tuttavia avvertito che l’art. 816 c.p.c, nell’attribuire alle parti il potere di determinare liberamente il modus procedendi, lascia spazio a taluni temperamenti. Segnatamente le parti, quali titolari della situazione dedotta in giudizio possono avere previsto nella convenzione arbitrale che non vengano utilizzati taluni strumenti probatori tipici e/o atipici, ovvero indicare criteri di valutazione della prova diversi da quelli tradizionali. Sarà compito del curatore, prima di subentrare nel contratto ex art. 72 L. Fall., esaminare analiticamente le clausole del compromesso per valutare, d’intesa con il giudice delegato, se le clausole della convenzione arbitrale possano pregiudicare gli interessi dei creditori. Lo stesso non [continua ..]
L’art. 263 c.p.c. disciplina l’accertamento dei risultati della gestione tenuta dai soggetti obbligati per legge a rendere il conto di tale gestione. Tipici esempi si rinvengono nel procedimento di divisione dove il condividente che ha gestito la cosa comune è tenuto a rendere il conto; nell’amministrazione dei condomini; nell’obbligo del curatore del fallimento di presentare al giudice delegato l’esposizione analitica delle operazioni contabili e delle attività di gestione della procedura. Considerato che l’art. 116 L. Fall. prevede un particolare procedimento da svolgersi esclusivamente davanti al giudice delegato per risolvere le contestazioni che sorgono in sede di approvazione del rendiconto, va escluso che tali questioni possano essere decise dagli arbitri.