Dopo aver analizzato il plesso normativo che governa le procedure di risanamento degli enti pubblici locali, mettendone in risalto gli aspetti caratterizzanti e le carenze che ne limitano fortemente l’effetto utile, gli Autori delineano, in una prospettiva anche comparatistica, scenari inediti ispirati alle procedure di risoluzione delle crisi da sovraindebitamento di cui alla L. n. 3/2012. L’intento ultimo della ricerca è verificare, infatti, l’esistenza di spazi utili da destinare al “dialogo” tra le normative di settore contenute nel D.Lgs. n. 267/2000 e nelle leggi speciali ed i meccanismi di “seconda opportunità”, implementando, così, le potenzialità del dato testuale posto che se, come noto, i soggetti ammessi alle procedure di risoluzione della crisi da sovraindebitamento sono tutti coloro che non possono fallire e che nemmeno possono beneficiare delle procedure di definizione negoziale della crisi previste dalla legge fallimentare, si dovrebbe concludere per l’applicabilità agli enti pubblici della L. n. 3/2012, espressamente esclusi dall’ambito applicativo delle disposizioni sul fallimento e sul concordato preventivo.
Following the review of the legal framework regulating the re-structuring of local authorities, highlighting any typical features and gaps which seriously limit their efficiency, the authors outline brand new scenarios inspired by resolution procedures on insolvency pursuant to L. n. 3/2012, also providing a comparison perspective. The aim of this research is to confirm the availability of suitable common ground to be used for interaction between the sector regulations as in Legislative Decree n. 267/2000, special laws and “second chance” mechanisms, thus implementing the potential of factual information. Condition for this, as is common knowledge, is that the subject eligible for solving procedures for over-indebtedness crisis is in the position of not going into receivership and may not in any way benefit from negotiation procedures of statutory insolvency laws, to reach conclusion for the applicability of L. n. 3/2012 to public bodies, the latter being expressly excluded from the scope of provisions on bankruptcy and creditor agreements.
1. Definizione del campo di indagine - 2. Enti pubblici. Una fotografia dell'esistente - 3. Enti pubblici economici. Tra liquidazione coatta amministrativa e sovraindebitamento - 4. Gli enti pubblici non economici e l'inapplicabilità dello status di imprenditore - 4.1. Una particolare ipotesi di enti pubblici non economici: gli enti territoriali - 5. Il dissesto e l'evoluzione della normativa - 6. Profili di criticità della disciplina. Problemi in cerca di una soluzione - 7. Uno sguardo al di là dell'orizzonte per ipotizzare soluzioni alternative - 8. La nuova frontiera del sovraindebitamento - 9. Considerazioni conclusive - Note
La crisi del settore finanziario iniziata nel lontano 2008 non ha tardato a colpire anche i debiti sovrani esponendo molti Stati, tra cui l’Italia, al rischio di default ed innescando al loro interno profondi cambiamenti nei relativi assetti istituzionali. Il settore delle Amministrazioni locali ha subito, più di ogni altro, duri contraccolpi economici che hanno acuito criticità già esistenti da tanto tempo, legate soprattutto alla maladministration. Il decentramento amministrativo prima e il contenimento della spesa pubblica poi, hanno costretto i nostri enti locali ad operare in una condizione di permanente precarietà, con gravi ripercussioni sotto il profilo economico e sociale. Il tutto aggravato dalla tecnica della segregazione nelle famigerate società partecipate utilizzate troppo spesso, nei venti anni precedenti, solo per eludere i patti di stabilità, i vincoli di spesa e le procedure ad evidenza pubblica. Ora che il peggio sembra solo essere passato (almeno sul piano di numeri e percentuali) sarebbe opportuno predisporre strumenti agili e flessibili che consentano anche agli enti pubblici, e a tutti coloro che vivono grazie all’indotto dagli stessi generato, di agganciare la ripresa in atto. Per farlo occorre risolvere le criticità che affliggono i bilanci di molte amministrazioni pubbliche locali ed una volta tanto possono soccorrere quegli strumenti privatistici che tanto male sono stati utilizzati in passato. Questo studio cerca di definire quale sia in materia lo stato dell’arte, evidenziandone gli aspetti caratterizzanti e le carenze che, di fatto, vanificano l’effetto utile cui aspirano le norme, nell’intento ultimo di esplorare prospettive inedite, ispirate alle procedure di risoluzione delle crisi da sovraindebitamento di cui alla L. n. 3/2012. Per verificare in che termini sia possibile instaurare un “dialogo” tra le normative di settore e i meccanismi di “seconda opportunità” [1] bisogna partire dal dato testuale. Come noto, per espressa disposizione normativa, in base a quanto stabilito all’art. 1 L. Fall. e all’art. 2221 c.c., gli enti pubblici sono esclusi dall’ambito applicativo delle disposizioni sul fallimento e sul concordato preventivo. Entrambe le norme muovono dalla convinzione dell’incompatibilità insanabile tra le finalità istituzionali di un [continua ..]
Se, come detto, ad essere esclusi dall’ambito applicativo della legge fallimentare sono gli enti pubblici, la prima operazione da compiere è individuare quali sono tali enti. La possibilità di dare definizioni universalmente valide in tema di enti pubblici è, nel contesto italiano, una utopia posto che la sfera pubblica è andata articolandosi nel tempo attraverso moduli organizzativi variegati, che rendono impossibile caratterizzare l’aggettivo “pubblico” in modo omogeneo [4]. Il quadro è reso ancor più complesso a causa della tendenza, affermatasi negli ultimi decenni, alla contaminazione delle forme giuridiche per cui, “da un lato, i soggetti pubblici utilizzano sempre di più gli strumenti di diritto privato, e, dall’altro, i soggetti privati diventano sempre più pubblici” [5]. A ciò va poi aggiunta l’incidenza che nel settore di riferimento ha avuto il diritto comunitario con l’introduzione nel nostro ordinamento del concetto di organismo pubblico [6], più volte abusato in sede applicativa [7]. tutti questi fattori contribuiscono a rendere sfuggente la nozione di ente pubblico. Se, infatti, è certa la natura pubblica dello Stato e degli altri enti territoriali (Comuni, Province, Città metropolitane, Regioni), nonché di quegli enti che sono definiti tali per espressa previsione normativa, non poche difficoltà emergono con riguardo agli enti non territoriali per i quali manchi la qualificazione pubblicistica ad opera del legislatore. La dottrina si è cimentata in una lodevole opera ricostruttiva nel tentativo di individuare un elemento unitario e costante al quale collegare il carattere pubblico di questi enti, rinvenuto di volta in volta nel perseguimento istituzionale di fini statali (teoria del fine); nell’essere gli enti dotati di poteri autoritativi, conferiti dallo Stato (teoria dell’imperium); nell’avere un rapporto organizzativo peculiare con lo Stato (teoria del rapporto di servizio); nell’essere sottoposti a controllo da parte dello Stato (teoria del controllo); nel godere di finanziamenti a carico del bilancio dello Stato (teoria del finanziamento) [8]. La giurisprudenza, sulla scia dei predetti contributi dottrinari, ha variamente fatto uso di tali teorie, talvolta privilegiando come carattere distintivo dell’ente pubblico [continua ..]
La prima è quella degli enti pubblici economici che si caratterizzano per il fatto di esercitare in via principale e prevalente un’impresa (non assumendo importanza, invece, il settore di intervento che può eventualmente essere non economico), avvalendosi pertanto di strumenti privatistici, e rilevando come pubblica amministrazione solo per alcuni atti quali l’approvazione del bilancio. Questi enti, un tempo numerosissimi, sono oggi in via di estinzione in quanto sono stati quasi tutti trasformati in società per azioni [13]. Proprio con riguardo alle società pubbliche, è opportuno rilevare che, dopo un lungo e tormentato dibattito sul loro regime giuridico [14], è intervenuto il Testo Unico in materia di società a partecipazione pubblica (D.Lgs. 19 agosto 2016, n. 175), che tenta “di ricondurre a fisiologia un coacervo di disposizioni nate negli ultimi 25 anni” [15], confermando l’approccio privatistico emerso in sede giurisprudenziale [16], con conseguente applicazione dello statuto dell’imprenditore commerciale, ivi comprese le norme sul fallimento. Ad ogni modo, nonostante il processo di privatizzazione abbia sdoganato il modello societario, permane a tutt’oggi un nutrito e significativo numero di enti pubblici economici che non è stato interessato dal fenomeno [17]. Sul piano delle conseguenze, tali enti, pur assumendo la qualità di imprenditori commerciali data l’attività esercitata, non sono assoggettati al fallimento bensì ad altra e diversa procedura concorsuale, quale la liquidazione coatta amministrativa. Si tratta di una procedura simile a quella fallimentare, nella misura in cui determina la liquidazione dei beni dell’imprenditore e il riparto del ricavato tra i creditori nel rispetto del principio della par condicio, che presenta, tuttavia, delle peculiarità connesse all’organo competente a disporla (autorità amministrativa al posto del Tribunale), ai presupposti indispensabili per l’adozione del provvedimento di liquidazione, al fine perseguito, giacché mira a rimuovere dal mercato non soltanto i soggetti non più in grado di assolvere regolarmente alle proprie obbligazioni, ma anche quelli il cui disordine economico o amministrativo rischia di compromettere l’interesse dello Stato a una sana economia. Essa è disciplinata [continua ..]
La seconda macro categoria è quella degli enti pubblici non economici, che è formata da enti fortemente disomogenei sia strutturalmente che funzionalmente, avendo in comune solo la disciplina collettiva del rapporto di lavoro per i propri dipendenti [30]. Sono enti che non perseguono finalità economiche, nel senso che non agiscono per la produzione di un utile, ma nella cura dell’interesse pubblico loro affidato si limitano a conseguire il pareggio tra costi e ricavi. Tali enti, pertanto, non assumono la qualità di imprenditori commerciali e, quindi, non potrebbero in nessun caso essere soggetti a procedura fallimentare [31] né ad altra procedura concorsuale. Questo consolidato principio pare essere stato, seppur parzialmente, scardinato da una recente pronuncia di merito con cui è stato autorizzato l’accesso alla procedura di sovra indebitamento di cui alla L. n. 3/2012 in favore di un ente morale di diritto pubblico purché “non abbia mai adottato forme privatistiche attraverso le quali perseguire le proprie finalità, non eserciti attività di impresa commerciale e ove l’unica attività economica esercitata (peraltro in modo del tutto minoritario e servente rispetto alla più ampia finalità pubblicistica) sia da ricondurre a quella di carattere agricolo, pure essa notoriamente sottratta alle procedure concorsuali anche se svolta in forma di impresa, ex art. 2135 c.c., ed esplicitamente indicata dall’art. 7, co. 2 bis della citata legge a proposito dei soggetti legittimati a proporre ai propri creditori un accordo di composizione della crisi” [32]. La vis espansiva delle procedure da sovraindebitamento con riguardo agli enti pubblici non economici ha poi trovato nuovo vigore grazie alla vicenda relativa al risanamento del Teatro Stabile di Catania, ente di diritto pubblico regionale non economico, che in quanto tale, non essendo soggetto a fallimento, ha potuto avvalersi della procedura prevista dalla L. n. 3/2012 [33], grazie alla quale è stato raggiunto all’udienza del 27 settembre 2017 un accordo con i creditori rappresentanti l’85,51% dei crediti che, da un lato, consente la prosecuzione dell’attività del Teatro e, dall’altro, garantisce a chi avanza soldi di ottenere qualcosa per certo.
Come da manuale gli enti territoriali sono quegli enti per i quali il territorio non solo costituisce un elemento indefettibile in quanto limitativo della sfera della competenza dell’ente, ma rappresenta l’elemento costitutivo. Per questa tipologia di enti il legislatore ha predisposto diverse e specifiche procedure di risanamento che sono state oggetto di ripetuti interventi normativi. Va detto, in via assolutamente preliminare, che, nonostante gli sforzi compiuti sul piano delle riforme, è ancora fortemente avvertita la necessità di rifondare tali procedure e ciò per diversi ordini di motivi. Sul piano scientifico gli operatori del settore sono tornati a chiedersi se le due procedure semplificata e ordinaria siano davvero efficaci [34] e se le politiche di governo siano adeguate. Dal punto di vista sociale, il dissesto comporta, come si avrà modo di evidenziare nelle pagine che seguono, rilevanti perdite economiche, maggiori tributi pagati, crediti non riscossi, importante tasso di mortalità delle imprese, sofferenza delle attività professionali (situazioni verificatesi nel caso del dissesto tarantino). Ulteriore elemento che deve indurre alla riflessione è quello della responsabilità politica. Se negli anni ’70 il dissesto era vissuto come un’opportunità per gli amministratori locali di riportare in bonis l’ente in modo indolore, ponendo gli effetti negativi della procedura a totale carico dello stato, oggi la dichiarazione di dissesto e tutto ciò che ne deriva evoca un male da evitare ad ogni costo.
Il Testo Unico della legge Comunale e Provinciale, approvato con il R.D. n. 383/1934, ignorava del tutto l’argomento. La trasformazione della finanza locale in finanza pressoché interamente derivata, cioè composta prevalentemente da trasferimenti statali, ed in minor misura anche Regionali, ha comportato una certa propensione degli Enti locali, in specie dei Comuni, a spendere più risorse di quelle realmente disponibili e a contrarre debiti per alimentare la spesa. Il fenomeno del dissesto iniziò, così, ad assumere proporzioni preoccupanti e sembrò evidente l’insufficienza del ricorso all’intervento statale. Così, dopo decenni di – incontrollata – deficit spanding, ovvero di finanziamento pubblico della spesa in disavanzo, sul finire degli anni ’70 del secolo scorso iniziò a diffondersi il problema riguardante gli squilibri dei bilanci degli enti locali, contraddistinti da una consistente massa di debiti fuori bilancio [35] non più gestibili con gli ordinari strumenti. A quel tempo andava sviluppandosi in tutta Europa un movimento che prese il nome di New Public Management il quale diede avvio ad un processo di “aziendalizzazione” [36], teso all’adozione di tecniche di gestione, organizzazione e informazione consolidate nel mondo manageriale, adattandoli al contesto autoreferenziale che dominava le logiche di approccio di tipo giuridiche-formale in voga nel settore pubblico. Per regolamentare in modo appropriato la gestione finanziaria spesso “allegra” degli Enti periferici furono introdotti i decreti “Stammati” (LL. nn. 2 e 946/1977) che dettavano le prime regole per contenere la spesa pubblica locale [37]. L’insufficienza delle misure predisposte indussero il legislatore ad offrire agli enti locali strumenti idonei al raggiungimento di un reale e rapido ripiano dei disavanzi, intervenendo dapprima con la L. 9 agosto 1986, n. 488, con cui si consentiva agli enti locali di riconoscere i debiti fuori bilancio e di finanziarli, anche attraverso il riparto in tre anni, con le risorse proprie del bilancio, poi con la L. 24 aprile 1989, n. 144 che introduce l’istituto del dissesto finanziario, destinato a quelle situazioni non rimediabili con strumenti ordinari, ed infine con il D.Lgs. n. 504/1992 sul riordino della finanza degli enti territoriali, la cui disciplina è confluita [continua ..]
Se nei primi anni di applicazione dell’istituto alcuni enti, allettati (illusoriamente) dal rilevante contributo statale, non esitarono a dichiarare il dissesto, sottovalutandone le stringenti conseguenze, in breve tempo, questa opzione è risultata una negatività da evitare ad ogni costo, per non essere costretti ad emanare provvedimenti gravemente impopolari. La dichiarazione del dissesto è tuttavia, per precisa disposizione, un atto dovuto al ricorrerne dei presupposti e l’unico strumento al fine di colmare immediatamente l’eventuale sperequazione dei contributi statali [42]. Quest’ultimo aspetto, che si traduce in un sostanziale vantaggio per l’ente, viene adombrato dalla previsione di cui all’art. 249 TUEL che vieta, dopo la deliberazione del dissesto, di contrarre nuovi mutui, fatta eccezione per quelli destinati alla copertura della massa passiva, oggi consentiti solo in taluni casi. Se, quindi, il nuovo indebitamento è ammesso solo a patto che non comporti aggravio per il bilancio dell’ente, è chiaro che l’unica via per garantire un reale equilibrio di bilancio è l’adozione di pesanti provvedimenti in materia di personale e di tributi locali, ritenuti così odiosi che gli enti arrivano il più delle volte alla dichiarazione di dissesto solo quando, a seguito delle azioni esecutive dei creditori che pignorano le somme della cassa comunale, non è più possibile pagare neppure gli stipendi al personale dipendente. Consapevole dei limiti della disciplina appena evidenziati, il legislatore con il D.Lgs. n. 149/2011 (che regola il c.d. dissesto guidato) e il D.L. n. 174/2012 (che introduce la procedura di riequilibrio finanziario pluriennale), ha veicolato nuovi e importanti cambiamenti nella normativa sul dissesto finanziario degli enti locali. Con tali interventi sono state introdotte delle procedure di pre-dissesto che gli enti possono attivare per tempestivamente arginare le cause di instabilità finanziaria dei bilanci locali. Contemporaneamente, con tali strumenti previsionali si cerca di evitare che gli enti in condizioni finanziarie ormai prossime al dissesto ritardino l’attuazione di provvedimenti – quali la stessa dichiarazione di dissesto – ovvero l’adozione di possibili misure correttive di natura preventiva che possono evitare il sopraggiungere del crack [continua ..]
Quando in Italia si iniziò a parlare delle procedure di dissesto, il modello preso ad esempio fu quello degli Stati Uniti, dove le procedure fallimentari sono regolate dal Bankruptcy Code [50]. Tre sono i capitoli rilevanti del Codice: il Chapter 7, che comprende le procedure per la liquidazione [51]; il Chapter 11, che regolamenta le procedure per la riorganizzazione aziendale [52]; infine il Chapter 9, che discute, appunto, il dissesto degli enti locali [53]. La norma, da ultimo richiamata, dispone che solo una “Municipality” ovvero un “Comune” può presentare una richiesta ai sensi del Chapter 9, ma il termine “comune” è definito in modo piuttosto ampio, come “suddivisione politica o agenzia pubblica o strumento di uno Stato”, così da includere città, contee, comuni, distretti scolastici e distretti di miglioramento pubblico. Storicamente il Chapter 9 non faceva parte del corpus normativo originario del Bankruptcy Act (c.d. Nelson Act), ma vi è stato inserito negli anni della Presidenza di F.D. Roosevelt e fa parte del pacchetto di riforme varate col New Deal. Prima dell’entrata in vigore del Nelson Act, il Congresso aveva approvato leggi ad hoc in materia di dissesto delle finanze municipali destinate a prevalere sulla fonte statale per il principio della supremazia del diritto federale su quello statale, in un ambito (quello fallimentare) riservato alla esclusiva competenza federale [54]. Questo spiega perché, a ben guardare, la disposizione americana non si concentra sulla natura giuridica dell’ente e sulle conseguenze di tale natura in punto di fallibilità, ma è orientata a disciplinare il rapporto tra il potere sovrano del singolo stato di organizzare e disciplinare le autorità locali e la possibilità, per queste ultime, di accedere ad una procedura regolata da un organo federale. La procedura disciplinata dal Chapter 9, analogamente a quanto previsto dalla normativa interna sul dissesto, è imperniata sulla definizione di un assetto duale in cui da un lato viene individuato un organismo straordinario cui affidare la ristrutturazione del debito pregresso, dall’altro la direzione dell’ente viene proseguita dai suoi organi istituzionali chiamati ad assicurare condizioni stabili di equilibrio finanziario, rimuovendone i fattori causativi. Altro elemento [continua ..]
Le considerazioni appena svolte suscitano in chi scrive una suggestione tutt’altro che peregrina. E se le radici di meccanismi agili e virtuosi fossero già presenti nel nostro ordinamento? Il quesito rimanda, inevitabilmente, alle procedure di risoluzione delle crisi da sovraindebitamento come ad una possibile risposta. Se, come emerge dal dato testuale della L. n. 3/2012, manca una preclusione espressa in relazione alla sua applicabilità anche agli enti pubblici, pare sussistere uno spazio per sperimentare la tenuta della nostra ipotesi. Bisogna, in proposito, sottolineare come l’assenza di una esclusione expressis verbis rischi di essere messa in discussione dall’avvento della «rivoluzione copernicana» del diritto fallimentare [59], avviata dalla Commissione Rordorf e che prevede, per la prima volta, una riforma organica dell’intero sistema concorsuale [60]. In attesa che la riforma sia portata a compimento non può non essere debitamente apprezzato l’attuale dato normativo che sembra essere stato appositamente costruito in modo tutt’altro che rigido, cosicché, andando al di là di quanto taciuto dal legislatore, è possibile cogliere la volontà di ampliare la platea dei beneficiari, offrendo definizioni dai contorni duttili, prevedendo l’accesso alle procedure in maniera generica, delineando in senso negativo i confini dell’ammissibilità sotto il profilo soggettivo [61]. Certo, l’esistenza di una procedura ad hoc, come quella sul dissesto, per il risanamento della crisi economico finanziaria in cui versa l’ente pubblico sembrerebbe negare, a priori, spazi di operatività alla disciplina sul sovraindebitamento. Ma tale conclusione non tiene conto della diversità sostanziale che intercorre tra le procedure regolate nel TUEL, aventi natura amministrativa e concretizzantisi nell’imposizione di vincoli particolarmente stringenti (che, come più volte ribadito, ne abbattono significativamente l’efficacia), nonché in forme di “commissariamento” dell’ente che viene privato dell’esercizio del proprio potere esecutivo, e l’accordo di composizione della crisi da sovraindebitamento che consente al debitore di mantenere un controllo pieno e diretto sia sulla procedura di risanamento che sulla gestione dell’attività imprenditoriale. [continua ..]
Nelle pagine che precedono si è tentato di far luce sugli aspetti più controversi del corpus normativo sul dissesto degli enti locali e di verificare l’esistenza di spazi di manovra che consentirebbero, previ opportuni adattamenti, l’accesso dei predetti enti alle procedure di risoluzione della crisi da sovraindebitamento, nella forma dell’accordo del debitore. Quest’ultimo, nella sua variante applicativa di strumento preventivo, senza pregiudicare le prerogative di natura pubblicistica dell’ente, può rivelarsi estremamente efficace data la possibilità di adattarlo alla realtà contingente, tenuto conto degli interessi connessi alla salvaguardia delle imprese, dei livelli occupazionali, delle istanze creditorie. Se le procedure sul risanamento degli equilibri finanziari rispondono ad esigenze di natura “contabile”, l’accordo potrebbe, al contrario, essere il mezzo che dà voce ai creditori e alle collettività di riferimento, attraverso il rilancio anche del principio di sussidiarietà orizzontale. Con esso si può recuperare il ruolo di una cittadinanza attiva che da mera spettatrice della debacle pubblica si fa promotrice [78] di nuovi meccanismi virtuosi di valorizzazione dei beni pubblici non per mere finalità di cassa, ma nell’ottica del bene comune dello Stato-Comunità [79], evitando così il ricorso a politiche dismissive degli assets patrimoniali locali come fosse l’unica via per cercare di ridurre il debito pubblico [80]. Il tutto con la garanzia del favor accordato dal potere politico che verrebbe posto in condizione di adottare concrete misure di abbattimento dell’esposizione debitoria senza pagare il “prezzo” di una disfatta sul piano elettorale. Non va sottovalutato, infatti, il drammatico impatto che le procedure sul dissesto finanziario determinano sui diritti dei singoli e della cittadinanza (limitazione dei diritti previdenziali, l’imposizione di elevate aliquote di imposta, la dismissione di beni pubblici) nonché degli stessi creditori [81]. È chiaro che le dinamiche connesse al debito pubblico locale non possono più essere lette con i tradizionali tecnicismi orientati solo al risanamento delle finanze e al riparto di ruoli e funzioni. Ed ecco perché, senza alcuna pretesa di completezza, si sono voluti fornire spunti [continua ..]