Il lavoro, prendendo spunto dalla recente decisione della Corte costituzionale del 25 ottobre 2017, analizza la tematica della legittimazione a promuovere istanza per la dichiarazione di fallimento, in generale e in relazione all’ipotesi della risoluzione del concordato preventivo.
The paper, taking news from the recent decision of the Italian Constitutional Court of October 25th, 2017, analyze the subject of legitimation to promote a motion to obtain the bankruptcy declaration, following the resolution of the arrangement with creditors.
1. La vicenda e la soluzione della Corte costituzionale - 2. Iniziativa officiosa e procedure concorsuali - NOTE
L’ordinanza della Corte costituzionale che si pubblica in questa sede [1] risulta di interesse sia per le questioni prettamente di giustizia costituzionale (che, tuttavia, non potranno essere, per ragioni di sintesi, oggetto di approfondimento nella presente sede), sia per il fatto che si ha l’occasione per analizzare la tematica dei residui ambiti in cui permane l’impulso officioso nella materia concorsuale. In punto di fatto, la questione (per quanto è dato comprendere dall’ordinanza di rimessione) risulta essere la seguente. Nel corso di una procedura concordataria, dopo l’omologazione, viene accertato l’inadempimento – caratterizzato da gravità – del debitore. Viene, dunque, promossa da un creditore istanza finalizzata ad ottenere la risoluzione del concordato. Risoluzione che viene disposta dal Tribunale. Il giudice rimettente, in assenza di specifica istanza da parte di uno dei soggetti indicati dalla norma positiva come legittimati, ritiene – correttamente – di non poter procedere alla dichiarazione di fallimento; sollecita, dunque, l’intervento della Corte costituzionale, dubitando della legittimità costituzionale del «combinato disposto» dei richiamati artt. 137 e 186, nella parte in cui «non prevede che, a seguito della pronuncia di risoluzione del concordato preventivo ad iniziativa di uno o più creditori, il Tribunale possa dichiarare d’ufficio il fallimento dell’imprenditore, qualora non vi sia domanda in tal senso da parte dei creditori, del pubblico ministero o dello stesso debitore». Ciò in quanto vi sarebbe un contrasto con l’art. 3 Cost., atteso che la dichiarazione di fallimento determinerebbe «una vera e propria conversione della prima procedura nella seconda» e, conseguentemente, non sarebbe ragionevole «la soppressione totale del potere di dichiarare d’ufficio il fallimento dell’imprenditore» anche nel caso in esame, tenuto conto che «in altri settori dell’ordinamento le norme che disciplinano le procedure concorsuali che potremmo definire “speciali” sono rimaste invariate». La Corte costituzionale, con un dispositivo articolato, dichiara la questione, per un verso, inammissibile, per altro verso, manifestamente infondata. Tale conclusione si fonda sulle seguenti [continua ..]
Come premesso, la tematica di maggior interesse è quella relativa all’insussistenza della pretesa irragionevolezza della norma rispetto ad altre fattispecie ove è tuttora previsto il potere del Tribunale di disporre d’ufficio l’apertura della procedura concorsuale. L’ordinanza richiama, in particolare, le norme in tema di conversione della procedura di amministrazione straordinaria delle grandi imprese in stato di insolvenza in fallimento (art. 69 ss., D.Lgs. n. 270/1999), nonché le disposizioni che regolano il potere del Ministro dell’economia e delle finanze di disporre (su proposta della Banca d’Italia) la liquidazione coatta amministrativa. Sul punto, come detto, la Corte costituzionale respinge la doglianza, di incostituzionalità rilevando l’insussistenza della lamentata irragionevole disparità di trattamento, trattandosi di fattispecie (quelle poste in comparazione) differenti, e non rilevandosi l’esistenza – nell’ordinamento – di un principio generale tale da imporre un intervento della Corte nel senso richiesto dal giudice a quo. Come è noto, la tematica della dichiarazione di fallimento d’ufficio è stata diffusamente analizzata sotto il vigore del previgente art. 6, L. Fall. [6], e l’intervento della Corte costituzionale era stato, in quel contesto, più volte invocato dalla dottrina, in relazione ai principi costituzionali del giusto processo, ma nel segno della demolizione dell’istituto ritenuto non più conforme ai dettami della Costituzione. La norma soprarichiamata disponeva, prima dell’intervento della riforma organica del 2006-2007, che il fallimento dell’imprenditore potesse essere dichiarato dal Tribunale, «su richiesta del debitore, su ricorso di uno o più creditori, su istanza del pubblico ministero, oppure d’ufficio». La legittimazione officiosa, tuttavia, nel diritto vivente, subiva rilevanti limiti [7]. Secondo la giurisprudenza costituzionale, vigente la disciplina del 1942, il Tribunale poteva procedere alla dichiarazione di fallimento d’ufficio, purché nel rispetto della posizione di terzietà-imparzialità del giudice, di talché la dichiarazione d’ufficio poteva ritenersi ammessa quando il procedimento per la dichiarazione di fallimento fosse sollecitato ab [continua ..]