L’articolo muove dalla constatazione della limitata incidenza del Codice della Crisi d’Impresa sulla pregressa disciplina dei rapporti processuali del fallito, per ripercorrere il dibattito dottrinale sulla condizione processuale di tale soggetto e tentare di offrire una lettura ragionata della vasta ed eterogenea produzione giurisprudenziale interferente con il tema. Il lavoro evidenzia un procedere incerto della giurisprudenza rispetto alla fondamentale contrapposizione, emersa in letteratura, tra la tesi che postula l’incapacità processuale del fallito e la tesi che esclude che il fallimento sia di per sé ostativo alla coltivazione da parte di tale soggetto delle proprie liti. In chiave teorica si esprime una netta propensione per tale seconda costruzione, di cui si sottolinea la perdurante validità nonostante le novità apportate, in materia, dapprima dalla riforma del 2006 e da ultimo dal CCI.
The paper, considered the modest innovation made by CCI with regard to trials of bankrupt, recalls the debate about processual condition of this figure and tries to read systematicly the related cases law. The author underlines that jurisprudence is not crearly aligned to the doctrinal debate. Among the traditional theories – the first assumes that bankrupt isn’t allowed to be part in trial while the opposite assumes the processual ability of bankrupt – the paper leans towards the second theory also after the regulatory reform of 2006 and after the approval of CCI.
Keywords: bankruptcy – Insolvency Code – processual condition of the bankrupt
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1. L’evoluzione della disciplina - 2. Il dibattito tradizionale sulla condizione processuale del fallito - 3. La posizione della giurisprudenza nel periodo precedente la novella del 2006 - 4. I termini della questione dopo la novella del 2006 - 5. La legittimazione suppletiva del fallito nell’inerzia della curatela fallimentare - 6. La novità apportata dal Codice della Crisi - NOTE
Tra i profili legati alla procedura fallimentare che il Codice della Crisi d’Impresa, varato con D.Lgs. n. 14/2019 [1], regola in sostanziale continuità con la disciplina della legge fallimentare, vi è quello concernente i rapporti processuali del fallito. La comparazione tra il testo originario della disposizione dedicata alla materia nella legge fallimentare (l’art. 43), quello risultante dalla novella operata dal D.Lgs. n. 5/2006 [2], e il testo della corrispondente disposizione del Codice della Crisi (l’art. 143), denota che lo statuto normativo di riferimento si è evoluto per successive aggiunte rispetto ai nuclei di disciplina preesistenti. In occasione della riforma del 2006, il legislatore si era limitato ad aggiungere a quanto già allora disponeva l’art. 43 L. Fall., che «l’apertura del fallimento determina l’interruzione del processo» (art. 43, 3° comma), e in modo analogo, da ultimo, ha unicamente arricchito l’esistente disponendo che «il termine per la riassunzione del processo interrotto decorre da quando l’interruzione viene dichiarata dal giudice» (art. 143, 3° comma, CCI). Immutato è rimasto, nelle due tornate, il nucleo originario dell’art. 43 L. Fall. che, nel 1° comma, che più interessa in questa sede, attribuisce al curatore il potere di «stare in giudizio nelle controversie anche in corso relative a rapporti di diritto patrimoniale del fallito compresi nel fallimento». I due interventi riformatori, nonostante il comune carattere additivo, hanno avuto sull’esperienza previgente un impatto di diversa portata. La statuizione della efficacia interruttiva del fallimento sui processi pendenti, effettuata nel 2006, infatti, a differenza della precisazione da ultimo apportata in ordine alla decorrenza del termine di riassunzione del processo interrotto, che è aspetto squisitamente operativo, ha a suo tempo inciso su un dato sistematicamente “sensibile”, rivitalizzando il dibattito sulla condizione processuale del fallito maturato nella vigenza del testo originario dell’art. 43 L. Fall.
Il tema in esame ha avuto nel corso dei decenni una elaborazione dottrinale e giurisprudenziale faticosa, acuita dalla laconicità del dato normativo originario, da un lato, e dalla accentuata frammentazione della casistica di riferimento, dall’altro. In passato, finché l’art. 43 si limitava a statuire che nelle controversie relative a rapporti compresi nel fallimento dovesse stare in giudizio la curatela, se non si dubitava che la rappresentanza processuale degli interessi facenti capo ai creditori concorsuali non potesse che competere agli organi della procedura, era profondamente controverso se il fallito fosse da considerare o meno capace di agire o resistere in giudizio per la tutela dei propri interessi patrimoniali. In proposito, nei primi decenni successivi all’entrata in vigore della legge fallimentare ebbe ampia diffusione la convinzione che il fallimento determinasse, a carico del fallito, la perdita della possibilità di rivestire il ruolo di attore o di convenuto, in tutte le controversie aventi ad oggetto diritti patrimoniali compresi nel fallimento, ossia che l’accesso alle liti gli fosse precluso in modo generalizzato, in ragione dello status di fallito, e non soltanto in connessione con l’effettivo esercizio del potere della curatela di stare in giudizio nell’interesse della massa [3]. In sostanza, si riteneva che vigesse una sorta di divieto delle liti del fallito, che andava ben oltre l’imputazione della rappresentanza giudiziale della massa agli organi della procedura, e che eventuali giudizi promossi dal fallito o nei suoi confronti non fossero suscettibili di approdare ad una pronuncia nel merito ma dovessero essere dichiarati inammissibili, se intrapresi ex novo dopo il fallimento, oppure, se avviati in precedenza, automaticamente interrotti [4]. La descritta impostazione teorica – che peraltro non disconosceva l’esistenza di deroghe di varia natura alla assunta incapacità processuale del fallito [5] – ebbe a perdere gradualmente terreno nei decenni a seguire, anche grazie alla serrata critica alla quale fu sottoposta da una parte della dottrina, la quale ebbe modo di evidenziare come né la disciplina sui rapporti processuali contenuta nella legge fallimentare né il sistema di diritto processuale generale offrissero supporto alla asserita inammissibilità delle liti del fallito [6], intese quali liti [continua ..]
Indicare quale delle due contrapposte chiavi di lettura sia stata recepita nel diritto vivente prima della riforma ad opera del D.Lgs. n. 5/2006, non è agevole [14], non soltanto perché la giurisprudenza ha avallato, in relazione alla vasta ed eterogenea casistica di riferimento, soluzioni non univoche, ma anche perché la sua complessiva elaborazione si rivela a tratti disallineata rispetto all’opera di concettualizzazione profusa dalla dottrina. Limitandoci alle linee di tendenza generali, va anzitutto evidenziato che la dichiarazione di fallimento di una parte in causa era considerata suscettibile di condurre all’interruzione del processo, già sotto la vigenza del quadro normativo originario, quando ancora nessun riferimento esplicito all’interruzione era presente nella legge fallimentare. In passato, tuttavia, era opinione comune che ove il fallimento colpisse una parte già costituita in giudizio, l’interruzione si producesse non già in modo automatico, bensì soltanto subordinatamente ad una iniziativa formale riservata alla curatela fallimentare interessata ad assumere la gestione della lite [15], secondo alcune sentenze, ovvero, secondo un altro indirizzo, al procuratore della parte colpita dal fallimento, in applicazione dell’art. 300 c.p.c. [16]. Tali approdi – accomunati, al di là della differenza ora indicata, dal postulare l’attitudine della causa pendente a proseguire validamente il proprio corso in assenza della provocazione dell’interruzione, e a pervenire alla emanazione di una sentenza nel merito efficace per il fallito, ancorché inopponibile alla massa dei creditori –, pur formalmente ancorati all’idea del fallimento quale fatto idoneo a menomare la capacità processuale del fallito, si rivelavano maggiormente allineati, nell’esito effettivo, alla tesi che ammetteva il fallito a coltivare le proprie liti, che non alla tesi contraria, atteso che, come acutamente rilevato da uno dei più attenti studiosi del fenomeno, «l’inopponibilità alla massa non è una forma di sanzione contro la violazione di un divieto alle liti bensì la condizione normale e ovvia delle decisioni sulle liti del fallito assunta la loro legittimità come premessa» [17]. Il predetto indirizzo si coordinava in modo coerente con la prevalente propensione delle [continua ..]
Il panorama sia dottrinale che giurisprudenziale si evolve a seguito della riforma messasi in moto a cavallo degli anni 2005-2006, e dell’inserimento, nel corpo dell’art. 43 L. Fall., della esplicita statuizione della efficacia interruttiva del fallimento ad opera del D.Lgs. n. 5/2006. La previsione, che nel suo tenore letterale avrebbe potuto essere letta come meramente confermativa dell’appartenenza del fallimento al novero delle vicende in grado di provocare l’interruzione del processo, che già allora costituiva, come detto, diritto vivente, venne intesa, sulla scorta della relazione di accompagnamento al testo normativo, come indicativa della volontà del legislatore di svincolare, da lì in avanti, la vicenda interruttiva del fallimento dal carattere di “relatività” che, fino a quel momento, le era stato riconosciuto dalla giurisprudenza prevalente. La disposizione introdotta dalla novella venne, nello specifico, interpretata – e lo è tuttora – nel senso che, con riguardo ai fallimenti dichiarati a partire dalla data di entrata in vigore della riforma, l’interruzione dei processi pendenti alla data del fallimento non sarebbe stata più subordinata ad una iniziativa di parte, ma sarebbe derivata in modo automatico dalla sentenza di fallimento, con conseguente invalidità e inefficacia dell’attività processuale posta in essere in data successiva [27], salva la necessità della formalizzazione dell’interruzione, con ordinanza meramente dichiarativa, ai fini dell’eventuale avvicendamento in giudizio del curatore al fallito. L’indirizzo così affermatosi, nel sottrarre alla regola della “relatività” dell’incapacità processuale del fallito lo spazio nel quale la stessa riceveva la più estesa ed incisiva applicazione – quello rappresentato dai giudizi avviati da o contro soggetto colpito da fallimento dopo il radicamento della lite – ha segnato una svolta che, per ragioni di coerenza logica, ha finito per rendere maggiormente recessiva l’idea che il difetto di legittimazione processuale del fallito sia rilevabile soltanto ad iniziativa della curatela, anche in relazione alle iniziative giudiziali assunte in data successiva alla dichiarazione del fallimento [28]. La consacrazione normativa della attitudine del fallimento a determinare [continua ..]
L’impressione complessiva è che la riforma del diritto fallimentare abbia determinato un riposizionamento della giurisprudenza nella soluzione di specifiche questioni applicative, senza essere stata dalla stessa intesa quale portatrice di un radicale mutamento di paradigma rispetto al passato nella materia oggetto di trattazione. L’impressione, ad esser più precisi, è che la giurisprudenza mostrasse già in passato maggior predilezione per il modello teorico alludente al fallito quale soggetto processualmente incapace, e che tuttavia soltanto a seguito delle più recenti riforme sia approdata ad indirizzi applicativi maggiormente coerenti con quel modello teorico. Il tutto però al di fuori di una rigorosa e meditata opera di raccordo tra elaborazione teorica (professata talvolta con formule di stile) e approdi pratici volta per volta avallati. Una conferma si ricava dalla continuità temporale, alla quale si è già accennato, dell’indirizzo – teoricamente molto sensibile – secondo il quale il fallito conserverebbe eccezionalmente la legittimazione ad agire in giudizio, in caso di inerzia della curatela dettata da assoluto disinteresse per la lite. Il predetto indirizzo non ha in alcun modo risentito della riformulazione dell’art. 43 L. Fall., segno che il sistema di riferimento sia stato per lo più percepito, nelle aule giudiziarie, come invariato nei suoi tratti fondamentali. L’idea che l’inerzia della curatela giustifichi una legittimazione processuale vicaria del fallito ha ricevuto e riceve la propria più frequente applicazione nell’ambito delle opposizioni del fallito agli atti impositivi inerenti a crediti di natura tributaria, i cui presupposti siano maturati prima della dichiarazione di fallimento del contribuente [34]. In materia, la giurisprudenza è rimasta fedele negli anni all’assunto secondo il quale i predetti atti possono essere eccezionalmente impugnati in proprio dal contribuente, che resta esposto ai riflessi, anche sanzionatori, conseguenti alla definitività dell’atto impositivo, in caso, appunto, di inerzia degli organi della procedura fallimentare nella coltivazione della relativa azione. Il filone giurisprudenziale ora evocato presenta, peraltro, una certa oscillazione nella individuazione delle condizioni in grado di legittimare suppletivamente il fallito, [continua ..]
Il problema operativo più immediato al quale ha dato luogo la regola dell’automatica interruzione dei giudizi in corso affermatasi a seguito della novella del 2006 è stato, come noto, quello di individuare il momento di decorrenza del termine trimestrale previsto ex lege per la riassunzione del processo interrotto. In proposito, dopo iniziali contrasti, si è affermato come prevalente in giurisprudenza, l’indirizzo secondo il quale la riassunzione deve avvenire entro tre mesi dalla data in cui la parte interessata alla prosecuzione del giudizio acquisisca la conoscenza “in forma legale” dell’evento interruttivo e del processo su cui lo stesso viene ad incidere [41]. In merito alla nozione di conoscenza legale, la stessa viene, nello specifico, ancorata alla dichiarazione o notificazione dell’evento interruttivo e del processo pendente, effettuata secondo la previsione dell’art. 300 c.p.c., ovvero, se anteriore, alla conoscenza dei predetti eventi procurata, alla parte interessata alla riassunzione, con atto assistito da fede privilegiata, escludendosi che assuma rilevanza la notizia del fallimento conseguita aliunde [42]. Il rigore di tale criterio tende, tuttavia, ad affievolire, nel caso in cui la controparte del fallito abbia preso parte alla procedura concorsuale, poiché in tal caso si valorizza la conoscenza di fatto attestata dalla partecipazione al concorso, con conseguente svincolamento della messa in moto del termine trimestrale dal compimento di atti comunicativi dotati di fede privilegiata, e individuazione del dies a quo, in difetto di ulteriori elementi, con il deposito della domanda di insinuazione al passivo [43]. Il quadro è, insomma, particolarmente frammentato in considerazione, sia della elasticità del criterio della conoscenza legale, sia della esistenza di variabili in grado di valorizzare l’effettività della conoscenza. Il Codice della Crisi d’Impresa, come indicato in apertura, interviene sul problema statuendo che il termine per la riassunzione decorra dal momento in cui l’interruzione sia stata dichiarata in giudizio (art. 143, 3° comma), e la scelta è da guardare indubbiamente con favore, nella misura in cui, dando rilevanza ad un dato formale unitario ed univoco, viene incontro all’esigenza di certezza applicativa degli operatori, non pienamente soddisfatta dalle [continua ..]