Il Diritto Fallimentare e delle Società CommercialiISSN 0391-5239 / EISSN 2704-8055
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Perdita di capitale e gestione non conservativa degli amministratori. Fra vecchia e nuova disciplina (di Manuel Franchi, Ricercatore di Diritto commerciale nell’Università degli Studi del Sannio di Benevento)


La sentenza in commento offre lo spunto per alcune considerazioni generali relative alla gestione sociale successiva al verificarsi di un evento dissolutivo: dalla rimodulazione in chiave “conservativa” dei poteri degli amministratori disposta dall’art. 2486 c.c., alla responsabilità per il caso di inadempienza, fino alla quantificazione del danno.

The ruling in question allows some general considerations relating to corporate management following the occurrence of a dissolving event: from the “conservative” remodulation of the powers of the directors (art. 2486 c.c.) to liability for the case of default and, last but not least, to the quantification of the damage.

Keywords: joint-stock company – bankruptcy – damage determination – directors' liability

TRIBUNALE DI MILANO 13 MARZO 2020 Pres. Rel. A. Mambriani (Art. 146 L. Fall.; art. 2486 c.c.) Nel caso in cui, pur non essendo la società in grado di pagare i debiti erariali ed in stato di scioglimento per perdita del capitale sociale, l’amministratore abbia tuttavia illegittimamente proseguito nello svolgimento di attività economica con assunzione di nuovo rischio imprenditoriale, in violazione così di quanto disposto dall’art. 2486 c.c., egli risponde dei danni in misura pari al debito per sanzioni, interessi ed aggi addebitati alla società con riferimento a quei debiti erariali non pagati che la società stessa non avrebbe contratto se fosse stata tempestivamente posta in liquidazione ed avesse conseguentemente cessato l’attività. (Omissis) Il bilancio d’esercizio chiuso al 31 dicembre 2009 recava una rappresentazione non veritiera e corretta della situazione aziendale, essendo stati appostati debiti tributari e previdenziali soltanto per la somma di € 334.931,00. Considerato tuttavia che i debiti tributari esistenti alla data del 31 dicembre 2009 ammontavano, come si è esposto, soltanto per imposte non versate, ad € 799.314,95, il bilancio avrebbe dovuto registrare maggiori debiti per almeno € 464.383,95 (€ 799.314,95 – € 334.931,00). Pertanto risulta che, a causa dei documentati debiti tributari, considerando che il patrimonio netto alla chiusura dell’esercizio è stato indicato in bilancio come ammontante ad € 62.040 (cfr. doc. 4 att.), il capitale sociale della Società fallita risultava già completamente eroso nell’anno 2009 e negativo per circa € 400.000. Ciò posto, occorre premettere che, ai sensi dell’art. 2482 ter c.c. se, a causa della perdita di oltre un terzo del capitale, questo si riduce al disotto del minimo legale, gli amministratori sono tenuti a convocare senza indugio l’assemblea per deliberare la riduzione del capitale e il suo contemporaneo aumento a una cifra non inferiore al minimo legale o la trasformazione della Società. Ai sensi dell’art. 2484 n.4 c.c. la riduzione del capitale al disotto del minimo legale – non accompagnata dalla sua ricostituzione nei termini di cui sopra o dalla trasformazione della Società – integra una causa di scioglimento della società che, ai sensi dell’art. 2485 c.c., deve essere iscritta presso l’ufficio del registro delle Imprese e comporta l’obbligatoria messa in liquidazione della società stessa. In ogni caso, ai sensi dell’art. 2486 c.c. al verificarsi della causa di scioglimento gli amministratori conservano il potere di gestire la società ai soli fini della conservazione dell’integrità e del valore del patrimonio e, in caso di violazioni, rispondono degli eventuali danni arrecati alla Società e ai creditori sociali per [continua..]
SOMMARIO:

1. Premessa - 2. La responsabilità di cui all’art. 2486 c.c. - 3. La gestione conservativa degli amministratori nella fase preliquidatoria - 4. La quantificazione del danno (fra nuova e vecchia disciplina) - NOTE


1. Premessa

Nella decisione in commento, relativa a un’ipotesi – assai frequente nella pratica – di sottaciuta perdita integrale del capitale sociale di una s.r.l., con prosecuzione dell’impresa e successivo fallimento, il Tribunale di Milano, richiesto dal curatore di accertare la responsabilità per mala gestio dell’amministratrice per i periodi antecedenti e successivi allo scioglimento, ha ritenuto di condannare la medesima (rectius, i suoi eredi) alla riparazione dei danni, individuando gli stessi in tre distinte voci risarcitorie [1]. In specie, la prima voce è individuata nei debiti erariali inevasi sorti quando la società era ancora in bonis; la seconda e la terza fanno riferimento all’epoca successiva al verificarsi di una causa di scioglimento e riguardano, l’una, le ulteriori e intervenute inadempienze fiscali, e l’altra, i canoni non pagati per l’af­fitto dell’immobile adibito a sede sociale. La sentenza, pertanto, indipendentemente dagli spunti che di per sé presenta, offre l’occasione per talune considerazioni relative alla gestione sociale successiva al verificarsi di un evento dissolutivo e, con ciò, alla rimodulazione in chiave “conservativa” dei poteri degli amministratori disposta dall’art. 2486 c.c., alla responsabilità per il caso di violazione di tale precetto e, non ultima, alla quantificazione del danno, viste e considerate, soprattutto, le modifiche normative intervenute ai sensi dell’art. 378 cod. crisi solo pochi mesi prima della pronuncia [2].


2. La responsabilità di cui all’art. 2486 c.c.

Dovendo trascurare, visti i fini del presente scritto, gli aspetti relativi alla responsabilità degli amministratori durante la fase “ordinaria” – pur accertata dal Tribunale di Milano per il mancato pagamento di tasse e altre imposizioni, e alle stesse commisurata, oltre aggi e sanzioni – pare opportuno soffermarsi, come anticipato, sulla sola responsabilità in fase estintiva [3]. In tal senso, una volta riclassificato il debito fiscale e rettificati i bilanci di esercizio, la sentenza ravvisa l’erosione totale del capitale sociale sin da quattro anni prima del fallimento, con relativo scioglimento ex art. 2484, 4° comma, c.c., e identifica – come accennato – due condotte foriere di responsabilità per la defunta amministratrice, ovvero la prosecuzione dell’attività con nuova assunzione di rischio imprenditoriale e il mancato rilascio dell’immobile adibito a sede sociale, per il quale la società non era più in grado di pagare il canone di locazione. Come noto, la disciplina di riferimento è contenuta nell’art. 2486 c.c., introdotta con la riforma del 2003 e di recente ritoccata col d.lgs. n. 14/2019, secondo cui, anzitutto, «al verificarsi di una causa di scioglimento ... gli amministratori conservano il potere di gestire la società, ai soli fini della conservazione dell’integrità e del valore del patrimonio sociale» [4]. In primo luogo, è bene affrontare la questione relativa al dies a quo, considerata la regola dell’art. 2484, 3° comma, c.c., secondo cui gli effetti dello scioglimento si determinano «alla data dell’iscrizione presso l’ufficio del registro delle imprese della dichiarazione con cui gli amministratori ne accertano la causa». Detta norma, in particolare, parrebbe configurare un’ipotesi di efficacia “costitutiva” [5], sicché, vista la mancanza della formalità nella fattispecie in commento (ove la perdita totale di capitale era stata celata), sembrerebbe lecito porsi il dubbio della stessa rimodulazione dei poteri in capo agli amministratori. In particolare, una volta svalutato il dato letterale contenuto nell’incipit dell’art. 2486 c.c. che fa riferimento «al verificarsi di una causa di scioglimento» ed enfatizzato, per converso, il requisito dell’iscrizione nel registro delle [continua ..]


3. La gestione conservativa degli amministratori nella fase preliquidatoria

Ciò posto, resta da intendere il senso della modifica dei poteri degli amministratori operata dalla norma, onde valutare la correttezza dei rilievi del Tribunale di Milano, che, come ricordato, ha censurato sia la prosecuzione ordinaria dell’attività di impresa con assunzione di nuovo rischio, sia il mancato rilascio della sede sociale. Al riguardo, va anzitutto inteso il ruolo che assumono i vecchi gestori con l’in­gresso della società nella fase ultima della sua attività. Tale fase, in specie, è destinata – come noto – alla definizione dei rapporti in essere coi terzi e alla ripartizione del residuo fra i soci, e siffatto risultato, esclusa – come pare preferibile – una alterazione dell’interesse sociale in direzione dei creditori [10], deve perseguirsi nell’obbiettivo della massimizzazione del risultato economico, divenendo questo il nuovo scopo dell’attività sociale, da affidare, per le peculiarità che lo caratterizzano, a soggetti ad hoc indicati e individuati, quali sono i liquidatori [11]. Già ciò, pertanto, basterebbe a chiarire come gli amministratori finiscano per occupare fondamentalmente una posizione precaria e del tutto temporanea, ove l’unico ruolo che ancora loro compete – prima dell’avvio della liquidazione vera e propria – è quello di fare in modo che il passaggio a chi viene dopo avvenga in modo tale da non condizionare in alcun modo le scelte da compiere [12]. I medesimi, in definitiva, nel tempo necessario fra il verificarsi dell’evento dissolutivo e l’inse­diamento dei liquidatori, devono fondamentalmente evitare che la situazione patrimoniale della società muti in senso peggiorativo. Una conferma di quanto detto può ricavarsi dalla stessa evoluzione normativa, che trova gli antecedenti dell’attuale disciplina nell’art. 197 del Codice del Commercio del 1882, secondo cui gli amministratori, sino all’accettazione dei liquidatori, restavano «depositarii dei beni sociali» e dovevano «provvedere agli affari urgenti», e nel previgente art. 2449 c.c., che vietava ai medesimi di compiere “nuove operazioni”, reputandoli responsabili della conservazione dei beni sociali fino alla consegna ai loro successori [13]. Se, peraltro, la prima norma, pur evidenziando già allora il ruolo [continua ..]


4. La quantificazione del danno (fra nuova e vecchia disciplina)

Il Tribunale di Milano, come ricordato, in riferimento all’attività svolta successivamente allo scioglimento sociale imputa all’amministratrice un danno duplice: in parte, pari ai debiti erariali per sanzioni, interessi ed aggi dalla data di perdita del capitale sociale e, in altra parte, commisurato ai canoni non pagati per la detenzione della sede sociale. Tale posizione, al di là della fondatezza o meno, consente alcune considerazioni su uno degli aspetti più discussi in tema di responsabilità preliquidatoria, ovvero quello della quantificazione del risarcimento, che di recente è stato oggetto di considerazione nell’ambito delle modifiche al codice civile operate in conformità del nuovo Codice della Crisi e dell’Insolvenza (d.lgs. n. 14/2019). Ai sensi, infatti, del­l’art. 378 cod. crisi, in vigore dal 16 marzo 2019, all’art. 2486 c.c. è stato aggiunto un terzo comma secondo cui «quando è accertata la responsabilità degli amministratori a norma del presente articolo, e salva la prova di un diverso ammontare, il danno risarcibile si presume pari alla differenza tra il patrimonio netto alla data in cui l’amministratore è cessato dalla carica o, in caso di apertura di una procedura concorsuale, alla data di apertura di tale procedura e il patrimonio netto determinato alla data in cui si è verificata una causa di scioglimento di cui all’articolo 2484, detratti i costi sostenuti e da sostenere, secondo un criterio di normalità, dopo il verificarsi della causa di scioglimento e fino al compimento della liquidazione. Se è stata aperta una procedura concorsuale e mancano le scritture contabili o se a causa dell’irregolarità delle stesse o per altre ragioni i netti patrimoniali non possono essere determinati, il danno è liquidato in misura pari alla differenza tra attivo e passivo accertati nella procedura» [26]. Volendo ripercorrere rapidamente l’evoluzione del dibattito scientifico e giurisprudenziale che ha preceduto la formulazione del nuovo comma, va ricordato in primo luogo che – vigente il divieto di nuove operazioni ex art. 2449 c.c. – la responsabilità veniva fatta derivare dalla mera prosecuzione dell’attività e, pur segnalandosi l’ideale opportunità di una puntuale quantificazione del pregiudizio in base al singolo atto [continua ..]


NOTE