L'articolo si propone di indagare la qualificazione civilistica delle “offerte pubbliche di transazione” a cui è stato dato corso in tempi recenti da parte di due istituti bancari al fine di ridurre i rischi da contenzioso coi propri soci e investitori e tentare per questa via un salvataggio dei medesimi. L’adozione di tale strumento innovativo non si è poi rivelata sufficiente allo scopo e le due banche sono state successivamente messe in liquidazione. Essa offre però al civilista molteplici spunti di riflessione. Al di là di innovazioni nominalistiche lo strumento prescelto costituisce applicazione di fattispecie generali e note del diritto privato classico. In molteplici situazioni esso può rivelarsi un utile ausilio al salvataggio dell’impresa in crisi, segnatamente ove questa sia correlata ad un serio rischio di insorgenza di passività da contenzioso gravi e diffuse.
The article aims to investigate the legal civil qualification of the “public offers for a settlement” that have recently been carried out by two banks in order to reduce the risk of litigation with their shareholders and investors and try a rescue by this way. The adoption of this innovative mean did not prove to be sufficient for the purpose and the two banks were subsequently put into liquidation. However, this instrument offers to the researchers of civil law many ideas and reflections. Beyond the nominal innovations (such as the name of the instrument itself, given by its creators), the chosen mean constitutes an application of general and basic rules of classical private law. In many situations it can be a useful aid to rescue the company in crisis, especially when this is related to a serious risk of the emergence of serious and widespread legal disputes.
1. La situazione di fatto - 2. L’offerta pubblica di transazione come strumento per contenere il rischio da contenzioso - 3. L'analisi del contenuto dell’offerta pubblica di transazione - 4. Proposta, offerta al pubblico, invito a proporre: il problema della qualificazione civilistica della c.d. offerta pubblica di transazione - 5. (Segue): la qualificazione dell’offerta pubblica di transazione come invito a proporre. La non riconducibilità alla categoria degli accordi e intese preparatorie o del contratto preliminare unilaterale - 6. Effetti e conseguenze della qualificazione civilistica dell’atto quale invito a proporre - 7. La validità della transazione oggetto dell’invito a proporre - 8. Prospettive e conclusioni - Note
Veneto Banca S.p.A. e Banca Popolare di Vicenza S.p.A. erano due istituti di credito molto radicati sul territorio di riferimento. Durante lo scorso anno, e nei mesi ancora precedenti, le stesse sono state scosse da forti tensioni e crisi, derivanti principalmente dalla scoperta di gravi irregolarità nella loro gestione e dalla sopravvenuta necessità di iniezioni di capitale imposte dalle autorità di vigilanza nazionali ed europee [1], che avevano portato dapprima alla operazione di ricapitalizzazione ad opera del Fondo Atlante [2] e più di recente, nel corso del 2017, addirittura alla adozione di un provvedimento legislativo con cui è stata disposta la liquidazione coatta amministrativa delle medesime [3]. L’esito appena descritto è giunto a seguito di un travagliato processo in cui è stata valutata la necessità di ricorrere alla procedura di bail-in e ripartizione interna delle perdite, ormai necessitata sulla base della cogente normativa europea [4]. Sotto questo profilo, in un primo momento, il tentativo è stato quello di evitare tali rimedi assai drastici mediante un rilancio delle banche medesime, o quantomeno l’individuazione di possibili partner per una ripresa di competitività. In questo quadro si sono inserite le iniziative volte a ridurre le passività (attuali o potenziali) dei due istituti di credito, tra cui il rischio di contenzioso, anche attraverso il “nuovo” strumento fatto oggetto di specifica indagine nel presente lavoro [5]. Tuttavia, successivamente, è emersa l’impraticabilità di tale strada di rilancio e dunque le banche si sono viste costrette a ricorrere ad una procedura di liquidazione, evitando però ancora una volta l’applicazione del bail-in, in quanto le competenti autorità hanno ritenuto che mancasse il requisito “dell’interesse pubblico”, segnatamente in quanto “l’operatività delle due banche” appariva “concentrata solo in alcune zone del territorio nazionale” e che dunque la loro liquidazione potesse avvenire in ambito nazionale. Ciò non ha peraltro impedito la concessione di aiuti di stato per sostenere l’uscita dal mercato di tali soggetti e tutelare così i risparmiatori ed il sistema bancario stesso, a garanzia della tenuta dell’intero sistema economico [6]. La crisi [continua ..]
La situazione venutasi a determinare per il nuovo management della banca, chiamato a sostituire i precedenti amministratori responsabili degli atti di mala gestio, è apparsa dunque immediatamente critica. L’emersione di condotte potenzialmente e gravemente colpose nella gestione, sotto vari profili ma segnatamente con riferimento a quanto sopra sinteticamente riportato, rischiava infatti di comportare una situazione insostenibile per ciascuna delle due banche coinvolte, arrivando a determinare il suo pressoché necessitato default. Peraltro la contrapposizione così netta con la clientela rischiava altresì di menomare il rapporto di fiducia tra banca e cliente, rendendo auspicabile per gli istituti di credito una composizione bonaria delle vertenze, al fine di poter proseguire in modo proficuo il rapporto commerciale con i soci e clienti. Sul piano concreto, gli investitori lamentavano in particolare il deterioramento, pressoché integrale, del valore del titolo: il danno per i soci derivava essenzialmente dalla intervenuta svalutazione della partecipazione. Da un punto di vista di stretto diritto, a ben vedere tale circostanza non sembrerebbe poter giustificare di per sé una azione risarcitoria personale del singolo socio, quantomeno nei confronti degli amministratori, essendo il danno verificatosi piuttosto il riflesso di condotte lesive per la stessa società. Illuminante in tal senso è la casistica di cui all’art. 2395 c.c. per cui la mera perdita di valore economico della partecipazione non è da considerarsi “danno diretto” al fine di giustificare una azione in prima persona del socio, dovendosi piuttosto, in tali ipotesi, ricorrere allo strumento più generale della azione ex art. 2392 c.c. [13]. Tuttavia è innegabile che in casi di così rilevante portata, con implicazioni su una platea così vasta di soggetti risparmiatori, il rischio da contenzioso derivante dall’accoglimento di domande simili non poteva essere trascurato. Va aggiunto peraltro che tale azione avrebbe avuto quali destinatari gli amministratori e non la società medesima. E inoltre va specificato la proposizione della azione sociale di responsabilità è stata poi deliberata dalle assemblee dei due istituti bancari coinvolti, prima che intervenisse la liquidazione, e sarà dunque coltivata, a beneficio delle società medesime e a [continua ..]
Analizzando più da vicino il contenuto della c.d. “offerta pubblica di transazione” proposta si osserva quanto segue. Anzitutto le due “offerte”, pur predisposte nell’ambito di una medesima strategia, presentano alcune differenze e specificità. Entrambe comunque mirano a procedimentalizzare tutta la fase precontrattuale necessaria per addivenire alla stipula del contratto di transazione con il singolo investitore [19]. Anzitutto viene definita la platea dei soggetti destinatari dell’offerta [20]. Viene inoltre indicato il valore riconosciuto agli investitori per ogni singola azione da essi detenuta. Parimenti vengono descritte le “concessioni” che si richiedono all’investitore aderente: in sostanza la rinuncia ad ogni azione nei confronti dell’istituto di credito e, come subito si vedrà, la cessione in favore dell’istituto di credito delle azioni e dei diritti (eventualmente spettanti) contro amministratori e/o terzi. Sul piano procedurale si aggiunge che, successivamente della pubblicazione dell’offerta, è consentito ai destinatari far pervenire alla banca “manifestazioni di interesse”. A seguito di detta comunicazione del privato, viene prevista una fase di “individualizzazione” del contratto in cui viene determinato compiutamente il valore dell’indennizzo e predisposta la sottoscrizione di un documento relativo alla specifica posizione del singolo. Viene poi ribadita la già citata condizione per cui la proposta e gli accordi stipulati a seguito delle adesioni degli investitori sono subordinati al raggiungimento di una quota complessiva di adesioni pari ad almeno l’80% degli aventi diritto, condizione però rinunciabile unilateralmente dalla banca (come poi effettivamente accaduto) [21]. Ancora, come accennato, la transazione prevede la rinuncia del socio a tutte le azioni nei confronti della banca e dei suoi esponenti aziendali. Si prevede inoltre una cessione alla stessa banca di tutti i diritti che avrebbero potuto esser fatti valere dai soci nei confronti di soggetti terzi, ivi compresi amministratori, sindaci, dipendenti, collaboratori, agenti, procacciatori, promotori finanziari e consulenti. Più in dettaglio dette azioni vengono in realtà cedute alla stessa banca firmataria (nel caso della transazione di Banca Popolare di Vicenza S.p.A.) ovvero si [continua ..]
La fattispecie appena descritta nei suoi tratti essenziali pone al privatista un problema di qualificazione. Occorre infatti determinare all’interno di quali norme giuridiche sia sussumibile il concetto di “offerta pubblica di transazione”. A livello nominalistico la disciplina pare evocare il fenomeno delle “offerte pubbliche” proprie del diritto commerciale e dei mercati finanziari, fattispecie in cui però, a ben vedere, l’emittente in via volontaria o più spesso obbligatoria si offre di acquistare titoli [23]. Al contrario il meccanismo negoziale congegnato da Veneto Banca e Banca Popolare di Vicenza appare intuitivamente più simile alla figura più generale della “proposta contrattuale”, di cui all’art. 1326 c.c., ovvero della “offerta al pubblico” di cui all’art. 1336 c.c. Al di là di questa somiglianza occorre però determinare se di tali fattispecie sussistano tutti i requisiti qualificanti. Con riferimento alla proposta contrattuale, pur mancando una definizione normativa, occorre rilevare che essa deve essere caratterizzata dalla intenzione di vincolarsi e dalla completezza. Si discute circa la sua qualificazione (segnatamente) negoziale o prenegoziale [24], ma essa resta certamente un atto che deve avere un contenuto intelligibile, completo e impegnativo [25]. Focalizzando l’attenzione su tali ultimi due aspetti, tradizionalmente si ritiene necessario che nella proposta siano presenti (quantomeno) tutti gli elementi essenziali del contratto. Sotto questo profilo la proposta può distinguersi dal semplice invito a proporre su cui ci si soffermerà subito nel prosieguo [26]. Va aggiunto che, secondo alcune impostazioni più permissive, sarebbe sufficiente la possibilità che detti elementi essenziali siano in proposta anche solo determinabili e non pienamente determinati [27]. In astratto sembrerebbe quindi profilarsi un discrimine basato sulla “essenzialità” degli elementi del contratto: in questo senso un aggancio normativo potrebbe individuarsi nell’art. 1336 c.c. secondo cui l’offerta al pubblico produce gli effetti della proposta quando contiene gli estremi essenziali del contratto alla cui conclusione è diretta [28]. La tesi è stata però contestata dal momento che, una volta inseriti in contratto ad opera delle [continua ..]
Alla luce delle considerazioni fin qui svolte, dall’esame delle c.d. “offerte pubbliche di transazione” predisposte da Veneto Banca S.p.A. e Banca Popolare di Vicenza S.p.A. emerge la carenza di alcuni requisiti necessari per poterle considerare come delle vere e proprie “proposte” o “offerte al pubblico” in senso codicistico. Il riferimento non è tanto alla condizione, che si è visto essere compatibile con la proposta stessa, quantomeno secondo l’impostazione che si è ritenuto di condividere. Nel caso di specie va peraltro aggiunto, per completezza, che oltre alla proposta (condizionata), ad essere sottoposto a condizione è pure il contratto che si intende stipulare in esecuzione della proposta. Vi è dunque sostanzialmente una doppia condizione, che non desta però particolari problemi [37]. Ciò che impedisce, a mio avviso, di considerare come “vera” proposta tale atto è piuttosto la circostanza che esso rinvii espressamente, per la conclusione del contratto, a delle fasi successive e ben determinate. In particolare entrambe le proposte formulate dalle banche qui menzionate prevedono che, nel caso in cui il socio decida di aderire, le parti sottoscrivano una vera e propria transazione separata e successiva (pur sempre condizionata all’avveramento della condizione relativa alla soglia di adesioni o alla sua rinuncia) che individualizzi la somma dovuta al risparmiatore e contenga il suo impegno alla rinuncia alle azioni. In definitiva a produrre l’effetto transattivo tra le parti non sarà dunque l’adesione alla (asserita) “offerta” formulata sul piano generale, bensì la stipulazione di un successivo atto separato. Pertanto, più ancora che la completezza, essendo il contenuto dell’atto definitivo già (e pur sempre) determinabile per ciascun socio o risparmiatore anche sulla base della c.d. “offerta pubblica di transazione” [38], a mancare nella fattispecie è la vera e propria volontà del proponente di vincolarsi, sì da rendere sufficiente una mera adesione di controparte al regolamento unilateralmente predisposto per far sorgere il contratto [39]. Esclusa la ricorrenza di una vera e propria proposta per carenza di requisiti, la c.d. “offerta pubblica di transazione” sembra conseguentemente sussumibile nello schema [continua ..]
La qualificazione dell’atto costituisce un punto imprescindibile per l’interprete al fine di indagare le conseguenze di eventuali revoche o modificazioni della c.d. “offerta” o ancora dell’inadempimento di quanto in essa proposto dalla banca. Non si tratta quindi di mero interesse teorico. Va detto però che, nel caso di specie, avendo detta “offerta” dato poi luogo alla effettiva stipulazione di singoli contratti con gli investitori, la questione è stata poi nei fatti superata. Ci si poteva però chiedere se la banca, una volta formulata la c.d. “offerta pubblica di transazione”, avrebbe potuto successivamente revocarla o modificarla e secondo quali modalità. Va ricordato anzitutto che detto atto era condizionato al raggiungimento di un certo numero di adesioni, per cui in mancanza lo stesso sarebbe stato privo di ogni effetto. In concreto la soglia non era stata raggiunta, ma trattandosi di condizione posta a favore della banca, questa ha poi rinunciato alla medesima, conferendo piena efficacia all’offerta. Ora se si trattasse di proposta individualizzata, secondo le regole generali, occorrerebbe che la revoca della proposta giunga a conoscenza dell’oblato prima della conclusione del contratto. Va ricordato però che qui la fattispecie concreta è diversa – per tutte le ragioni già viste – dal momento che non è l’accettazione del destinatario a perfezionare il contratto, ma questo è concluso in una successiva fase. Qualora si trattasse invece di un’offerta al pubblico sarebbe sufficiente una revoca comunicata al pubblico con le stesse modalità dell’offerta, ai sensi dell’art. 1336 c.c. [53]. Una facilitazione dunque per il proponente che si ritiene possa essere riferita anche all’invito a trattare. Va detto però che l’invito a proporre comporta un effetto vincolante ben inferiore per il proponente rispetto alla offerta formale, dal momento che l’adesione ad esso non comporta l’automatica conclusione del contratto. Non essendo dunque la fattispecie qui esaminata, per tutte le ragioni predette, riconducibile agli schemi della proposta o dell’offerta al pubblico, occorre dunque determinare quali avrebbero potuto essere le conseguenze di una violazione dell’impegno assunto con l’invito a trattare [54]. Il parametro di [continua ..]
L’accordo oggetto della c.d. “offerta pubblica” (rectius: invito a proporre) avanzata dalle banche è astrattamente riconducibile allo schema della transazione: esso mira infatti a porre fine ad una controversia attuale o potenziale mediante reciproche concessioni tra le parti [60]. La contrapposizione qui riguardava essenzialmente le azioni che i soci investitori avrebbero potuto proporre nei confronti della banca [61]. Il tema diviene allora quello di determinare se della transazione proposta sussistano tutti i requisiti qualificanti. L’esistenza di una lite già incominciata o da prevenire, in termini codicistici, appare palese. Il riferimento è allora in particolare alla sussistenza delle “reciproche concessioni” [62] che – lungi dal poter essere considerate mero strumento di valutazione della equità della transazione – sono suscettibili di avere un’incidenza sul piano causale o comunque caratterizzano e qualificano lo schema tipico del contratto qui esaminato [63]. Nel caso di specie, alla rinuncia alle azioni e agli ulteriori impegni a carico del socio investitore, si contrappone un esborso in denaro da parte della banca, a cui si aggiunge l’applicazione di condizioni commerciali più favorevoli alla clientela aderente. Reciproche concessioni sembrano dunque sussistere, quantomeno sul piano formale. Diverso il discorso circa la proporzionalità tra gli obblighi (e le rinunce) reciproche cui le parti sono andate incontro. In effetti, mentre appare più chiara e incisiva la rinuncia dell’investitore, la banca si libera del rischio di lite con un pagamento tutto sommato esiguo (anche se nel complesso rilevante, se moltiplicato per tutti i soci risparmiatori aderenti alla c.d. “offerta pubblica”). Secondo l’opinione assolutamente prevalente tuttavia la proporzionalità delle reciproche concessioni non rileva in ambito transattivo [64]. Il limite potrebbe individuarsi piuttosto ancora una volta nella teoria della “causa in concreto” che impone di valutare l’effettiva finalità perseguita dalle parti nell’addivenire al contratto [65]. È chiaro dunque che nel caso limite di una transazione a condizioni risibili potrebbe in realtà porsi un problema di tenuta sul piano causale [66]. Nella fattispecie in esame non sembra però possibile [continua ..]
La c.d. “offerta pubblica di transazione” (rectius: invito a proporre) realizzata lo scorso anno da Veneto Banca S.p.A. e Banca Popolare di Vicenza S.p.A. è stata una operazione innovativa che ha permesso di ridurre grandemente il rischio da contenzioso cui erano esposte le due banche. Essa non è stata sufficiente a conseguire l’obiettivo del salvataggio dei due istituti, ma ha comunque posto le basi per una importante diminuzione del debito (potenziale) delle banche medesime. Si è trattato di uno strumento e meccanismo giuridico nuovo che, pur riecheggiando a livello nominalistico alcune fattispecie proprie del diritto commerciale, in realtà come si è visto appare caratterizzato dalla applicazione alla specificità del caso concreto di categorie e strumenti privatistici classici. Il riferimento è in primo luogo all’invito a proporre, accompagnato dalla successiva stipulazione di una transazione, la quale prevede altresì la cessione dei crediti risarcitori eventualmente maturati dai soci transigenti nei confronti di soggetti terzi. I fatti successivi alla pubblicazione dell’offerta, che hanno visto da un lato l’avvenuto accoglimento di alcune azioni proposte dai soci avverso le citate banche, in sede ordinaria o dinnanzi all’ACF, e dall’altro la liquidazione coatta amministrativa delle medesime, permettono di compiere alcune considerazioni conclusive sul piano fattuale. Anzitutto può ritenersi riconosciuto giudizialmente – ancorché non in via definitiva – che molte delle pretese avanzate dai soci nei confronti delle predette banche erano apparentemente fondate. Il ristoro accordato in via transattiva appare dunque una somma decisamente contenuta, in relazione alle richieste avanzate ex adverso. Va detto però che l’alea della lite (pur sempre esistente) è stata scongiurata. Peraltro, nel contesto effettivamente determinatosi, come giustamente evidenziato a suo tempo dal management delle due banche, occorreva necessariamente quantificare l’importo dovuto in una somma comunque sostenibile per gli istituti di credito, in quanto in caso contrario nessun risarcimento sarebbe stato in concreto versato. La c.d. “offerta pubblica di transazione” ha dunque costituito uno strumento utile e funzionale allo scopo, che tuttavia non è stato compiutamente [continua ..]