Il saggio ripercorre le tesi che si stagliano in materia di legittimazione ad esperire ex novo, o proseguire laddove già pendente, l’azione revocatoria ordinaria ex art. 2901 c.c. dopo l’apertura del fallimento. Vengono analizzate le ragioni poste a fondamento della lezione tradizionale secondo cui, in entrambe le ipotesi, sussisterebbe una legittimazione esclusiva in capo al curatore fallimentare ex art. 66 L. Fall. Successivamente, si approfondiscono le critiche, cui l’autore aderisce, di coloro che propugnano una legittimazione concorrente del singolo creditore, a prescindere dall’operato del curatore. Obiettivo del lavoro è dimostrare come la vexata quaestio in materia non abbia ancora oggi ricevuto una soluzione rigorosa, e condivisibile, in giurisprudenza.
This paper analyses art. 66 of Italian Bankruptcy Law, which allows the Trustee in bankruptcy to bring the ordinary avoidance action under art. 2901 of the Italian civil code. The study answers in particular the following question: is the power of the Trustee in bankruptcy to bring an ordinary avoidance action under art. 2901 c.c. exclusive? This paper argues that a creditor should be permitted to bring an avoidance action under art. 2901 c.c., regardless of the existence of an insolvency procedure against its debtor. It also underpins that the action brought by the single creditor cannot harm the interests of the community of creditors represented by the Trustee in Bankruptcy. In order to reach this conclusion and to offer a comprehensive overview of the issues surrounding the topic, this study draws upon an in-depth analysis of main doctrine and case law related to art. 66 of the Italian Bankruptcy Law and art. 2901 of the Italian civil code.
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1. Introduzione - 2. Gli argomenti a favore della legittimazione esclusiva del curatore a proseguire o esperire ex novo l'azione revocatoria ordinaria secondo la dottrina - 3. (Segue): gli argomenti a favore della legittimazione esclusiva del curatore secondo la giurisprudenza - 4. Profili applicativi. I fattori rilevanti nella scelta del curatore di proseguire o esperire ex novo l'azione revocatoria - 5. Le possibili scelte del creditore individuale in ordine all'esperimento o alla prosecuzione dell'azione revocatoria ordinaria dopo la chiusura del fallimento - 6. La tesi sulla permanenza della legittimazione del creditore a instaurare ex novo o proseguire l'azione revocatoria ordinaria ex art. 2901 c.c. in pendenza di fallimento - 7. Gli argomenti a sostegno della tesi della proseguibilità dell’azione in capo al creditore singolo (a prescindere dall’operato del curatore). In particolare: la diversità tra l’azione del curatore e quella del creditore individuale - 8. (Segue): la non ascrivibilità del subentro del curatore all'istituto dell'intervento in giudizio principale o adesivo ex art. 105 c.p.c. - 9. (Segue): la non ascrivibilità del subentro del curatore all’istituto della sostituzione processuale ex art. 81 c.p.c. - 10. (Segue): la non ascrivibilità del subentro del curatore all’istituto della successione nel processo ex artt. 110 o 111 c.p.c. - 11. (Segue): l’ipotesi giurisprudenziale di una “speciale legittimazione sostitutiva” o della rappresentanza processuale ex lege - 12. La critica alla tesi della esclusività della legittimazione del curatore in ragione del divieto di azioni esecutive ex art. 51 L. Fall. - 13. La critica alla tesi della esclusività della legittimazione del curatore in ragione della perdita di interesse ad agire ex art. 100 c.p.c. in capo al creditore singolo - 14. La tesi della proseguibilità dei giudizi in corso da parte del singolo creditore-attore. Profili applicativi - 15. La “terza via” giurisprudenziale: l’inefficacia relativa quale compromesso tra le due opposte tesi in materia di legittimazione a proseguire l’azione revocatoria ordinaria - 16. I profili problematici lasciati irrisolti dalla soluzione giurisprudenziale - 17. La legittimazione del creditore singolo a promuovere ab initio l’azione revocatoria ordinaria dopo la dichiarazione di fallimento - 18. Conclusioni - Note
Tra i problemi interpretativi più dibattuti che si affacciavano nel regime del Codice di commercio del 1882, vi era quello relativo all’individuazione del soggetto legittimato ad esperire ex novo, o a proseguire qualora già pendente al momento della dichiarazione di fallimento, l’azione revocatoria ordinaria. Il silenzio sul punto dell’art. 708 cod. comm., a norma del quale “tutti gli atti, i pagamenti e le alienazioni fatte in frode dei creditori, in qualunque tempo abbiano avuto luogo, devono essere annullati secondo le disposizioni dell’art. 1235 cod. civ.”, ossia secondo la norma di diritto comune in materia di “azione rivocatoria” [1], infatti, aveva dato adito ad un dibattito tra diverse correnti dottrinali: vi erano, in primo luogo, coloro che propugnavano la legittimazione esclusiva in capo al curatore fallimentare, sia per quel che concerne la proseguibilità dell’azione pauliana già pendente, sia per quel che concerne la promozione dell’azione ab initio una volta intervenuto il fallimento [2]; vi erano, poi, coloro secondo i quali il singolo creditore poteva proseguire l’azione già instaurata e ancora pendente alla data di apertura del concorso, o instaurarne una ex novo, a condizione tuttavia che il curatore fosse rimasto inerte [3]; vi erano infine coloro che propugnavano una legittimazione parallela e concorrente tra curatela e creditore uti singulo, a prescindere dall’operato dell’organo fallimentare, trattandosi di azioni diverse e non incompatibili [4]. Il legislatore del 1942, tramite il dettato normativo di cui all’art. 66 L. Fall., ha risolto soltanto parzialmente le incertezze ora menzionate: è stata, infatti, assicurata al curatore fallimentare la facoltà di esperire ex novo l’azione pauliana [5]; al contempo, tuttavia, non è stata, nemmeno tramite le numerose novelle “a singhiozzo” della legge fallimentare che si sono susseguite, posta una disciplina positiva sulla natura della legittimazione del curatore, esclusiva o concorrente a quella del creditore, a esperire l’azione pauliana dopo l’apertura del concorso, né è stata normata la “sorte” dell’azione revocatoria ordinaria già pendente al momento della dichiarazione di fallimento: tali lacune hanno prodotto – o, [continua ..]
Sin dai primi commenti all’art. 66 L. Fall., la dottrina maggioritaria ha ritenuto che la legittimazione del curatore a proseguire o esperire ex novo l’azione pauliana avesse carattere esclusivo sulla base di tre argomentazioni che possono, per ragioni di organicità espositiva, essere compendiate come segue [6]. La prima si fonda sul piano dei principi che connotano la procedura concorsuale, e in particolare su quello da cui essa è maggiormente permeata, ovvero la par condicio creditorum: una volta dichiarato il fallimento, l’azione revocatoria ordinaria verrebbe “aspirata nel vortice” delle azioni il cui esercizio spetta esclusivamente al curatore, quale organo rappresentante dell’interesse collettivo della massa, proprio perché l’alternativa che si profilerebbe sarebbe l’instaurazione o la prosecuzione dell’azione in capo al singolo creditore, con il che verrebbero distorti, e infranti, i connotati di solidarietà e giustizia distributiva che caratterizzano il fallimento [7]. Se così non avvenisse, infatti, verrebbe consentito al singolo creditore di determinare l’inefficacia relativa dell’atto fraudolento che viene colpito dalla revoca, preludio di una futura esecuzione della quale egli solo si avvantaggerebbe in via prioritaria rispetto agli altri creditori che con lui potrebbero astrattamente concorrere: tale scenario non può tuttavia verificarsi, atteso che, al momento della dichiarazione di fallimento, i creditori del fallito si trovano posizionati in condizioni di assoluta parità. Una posizione di vantaggio di un creditore rispetto ad un altro, se giustificata quando si verifichi in seno a una procedura esecutiva individuale, che premia il creditore più diligente e sollecito, collide con il sistema concorsuale, i cui ingranaggi rendono impossibile la realizzazione di posizioni di favore sulla base delle modalità – o della tempestività – dell’esecuzione stessa [8]. La possibilità, data al curatore, di esperire ex novo l’azione o di sostituirsi al singolo creditore per proseguirne l’azione già iniziata individualmente mira proprio a troncare sul nascere ogni perturbamento del principio di pari trattamento dei creditori nella distribuzione dell’attivo, quale “spirito” che anima la procedura fallimentare, trasformando così [continua ..]
Volgendo l’attenzione alla giurisprudenza in materia, si può notare come, per lungo tempo, si siano stagliate posizioni analoghe a quelle della dottrina ora citata: in realtà, si può forse affermare che tra le sentenze pronunciate nel regime dell’art. 708 del Codice di commercio e quelle seguite alla promulgazione della legge fallimentare non vi è stata alcuna soluzione di continuità. Già prima che entrasse in vigore l’art. 66 L. Fall. veniva infatti ripetuto dalla giurisprudenza che, alla luce del puntuale richiamo alla revocatoria ordinaria nel contesto fallimentare, il curatore è legittimato esclusivo a revocare tutti quegli atti fraudolenti compiuti dal debitore durante quello che già all’epoca veniva definito uno “stato di preinsolvenza”, o di “insolvenza virtuale”; una fase, quest’ultima, che precede il periodo sospetto e lo stesso dissesto dell’impresa, ma è ad esso preparatoria [16]. Se infatti, come è stato efficacemente sottolineato, si perviene al fallimento con una difficoltà graduale e crescente, in un’escalation progressiva che non prevede strappi improvvisi, non è ragionevole pensare che gli atti fraudolenti compiuti nella fase antecedente al periodo sospetto abbiano danneggiato un solo creditore – quello che, per ipotesi, si sia già attivato con azione revocatoria ordinaria –, ma al contrario è più probabile che essi abbiano comunque pregiudicato irreparabilmente tutti i creditori in egual misura. Proprio per questa ragione è stato approntato lo strumento revocatorio ordinario che, non essendo gravato dai più stringenti limiti temporali che connotano la revocatoria fallimentare, si mostra efficace nei casi, per l’appunto, di atti fraudolenti compiuti nello stato di “preinsolvenza”. In altri termini, come acutamente osservato in commento alle decisioni antecedenti al 1942, “non si può separare il periodo d’insolvenza dichiarata dal periodo che lo precede con un taglio netto, riconoscendo negli atti compiuti nel periodo anteriore un riflesso dannoso rispetto ai soli creditori anteriori ad essi e negli atti compiuti durante l’insolvenza un effetto dannoso per la massa” [17]. Sempre guardando alla giurisprudenza in materia, le pronunce che si sono susseguite durante il corso del ’900, [continua ..]
Ci si può ora interrogare su quali siano, in concreto, le implicazioni di una tale impostazione, e dunque quali siano le possibilità offerte al curatore fallimentare in tema di revocatoria ordinaria, una volta dato per assodato che solo a lui spetti la facoltà di esercizio o la prosecuzione di tale azione. Il curatore, dunque, innanzitutto, potrebbe esercitare l’azione revocatoria ordinaria ab initio; in secondo luogo, qualora essa sia già stata promossa e sia stata interrotta per effetto della dichiarazione di fallimento, potrebbe scegliere di subentrare nel giudizio già in corso [21]; qualora invece la domanda del singolo creditore sia già stata accolta, il curatore potrebbe agevolmente appropriarsi dei suoi risultati, dando esecuzione alla sentenza. Da ultimo, nell’ipotesi in cui l’azione proposta dal creditore singolo prima del fallimento fosse già stata in precedenza respinta con giudicato, il curatore potrebbe, secondo un autorevole Autore, ugualmente riproporla [22]: e questo perché il giudicato non determina nei suoi confronti alcuna preclusione, in ragione della mancanza di identità di soggetti ai sensi dell’art. 2909 c.c. [23]. La valutazione che il curatore in tali casi sarebbe chiamato a operare non potrà non essere influenzata dalla precedente strategia processuale del singolo creditore: qualora questa sia meritevole di essere condivisa, egli riassumerà l’azione nella medesima fase in cui essa si trovava al momento dell’interruzione [24], potendo altresì, ove sia stata pronunciata sentenza di rigetto, impugnare la decisione di primo grado [25]; qualora invece l’operato del creditore singolo non risulti fruttuoso, il curatore radicherà un nuovo giudizio davanti al Tribunale fallimentare, competente ex art. 66, 2° comma, L. Fall., giudizio che sarà libero di coltivare secondo la strategia processuale ritenuta più efficace. La scelta del curatore, per il vero, sarà naturalmente influenzata dal regime processuale delle preclusioni assertive e istruttorie, non potendo con ogni evidenza prescindere dalla fase in cui il procedimento già pendente si trova [26]: il curatore, all’apertura del concorso, potrebbe subentrare in un processo di revocatoria ordinaria non ancora istruito; in altre ipotesi, potrebbe venire a conoscenza [continua ..]
Sulla scia di queste considerazioni, è possibile indagare le possibili scelte del creditore in ordine all’azione revocatoria ordinaria una volta che sia già stato chiuso il fallimento: se il curatore, infatti, non si risolvesse a subentrare nell’azione pauliana già iniziata, sia perché non lo trovi vantaggioso sia perché, per le più varie ragioni, questa non venga riassunta nei termini previsti per legge, si ritiene che l’azione rimanga “fossilizzata” nella fase in cui si trova nel corso dell’intera durata del fallimento. Il creditore originario potrà eventualmente riassumerla e proseguirla solo dopo la chiusura della procedura concorsuale, come affermato in giurisprudenza [29]: con tale evento, infatti, spirerebbe la legittimazione processuale del curatore e, al contempo, “resusciterebbero” l’interesse ad agire e la legittimazione del singolo creditore [30]. Con la chiusura del fallimento, inoltre, secondo la tesi in parola, rivivrebbe altresì la facoltà, data a ciascun creditore rimasto parzialmente o in toto insoddisfatto in ragione del concorso, di promuovere autonomamente ab initio l’azione revocatoria ordinaria per sentir dichiarato inefficace nei propri confronti un atto compiuto dal debitore prima dell’apertura del fallimento. Inoltre, a precludere un eventuale esercizio ab initio dell’azione da parte del creditore, una volta chiuso il fallimento, sarebbe l’eventualità che l’atto che egli intende revocare sia già stato in precedenza oggetto di revocatoria promossa dal curatore, nel corso della procedura: in tal caso, il rappresentante della massa avrebbe infatti, secondo un’altra parte della dottrina, “consumato” il diritto in senso giuridico, sostanziale e processuale, indipendentemente dall’esito positivo o negativo della causa, e il creditore non potrebbe più esercitare sull’atto ritenuto fraudolento alcuna pretesa, avendo il curatore già agito nel suo interesse [31].
La tesi dottrinale e giurisprudenziale secondo cui la legittimazione del curatore a proseguire o esercitare l’azione pauliana appena riassunta, tuttavia, non è passata indenne da critiche. Si è dunque (ri)aperta, al pari di quanto accaduto, come si è visto supra, nel vigore del Codice di commercio del 1882 [32], una stagione dottrinale di rimeditazione sul tema. È stato infatti (ri)messo in discussione il dogma del “monopolio assoluto” relativo alla legittimazione esclusiva ad esercitare o proseguire l’azione revocatoria ordinaria in capo al curatore fallimentare, ed è stato propugnato, come contraltare, un sistema di “compresenza” tra la legittimazione del creditore a proseguire o instaurare autonomamente un’azione ex art. 2901 c.c., a seguito dell’apertura del fallimento, e quella del curatore a promuovere una autonoma e diversa ex art. 66 L. Fall. Per ragioni di ordine espositivo, si ripercorrerà inizialmente la tesi di quella dottrina che propugna la legittimazione del creditore individuale a proseguire l’azione individuale già pendente alla data di dichiarazione del fallimento da parte del singolo creditore; separatamente, a seguire, verrà affrontato il tema, analogo e fondato su ragioni in massima parte identiche, della legittimazione del creditore ad esperire ex novo la medesima azione, una volta dichiarato il fallimento.
La prima critica opposta alla tesi della legittimazione esclusiva del curatore insiste su uno dei necessari corollari che derivano dalla lezione supra analizzata: la tesi tradizionale presuppone infatti che, una volta riassunto il processo di revocatoria ordinaria interrottosi per effetto della dichiarazione del fallimento ex art. 43, 3° comma, L. Fall., la posizione processuale del curatore necessariamente subisca uno “sdoppiamento” di ruoli. Egli infatti si trova a stare in giudizio, da una parte, in luogo (rectius: in sostituzione) del debitore fallito, avendo questi perduto la propria legittimazione processuale attiva e passiva sui rapporti di diritto patrimoniale del fallito compresi nel fallimento in virtù del disposto dell’art. 43 L. Fall. [33], e dall’altra, come si è visto, in luogo del singolo creditore. Se si accede alla tesi della legittimazione esclusiva del curatore, quindi, quest’ultimo si troverà a svolgere inevitabilmente il ruolo, al contempo, di attore (creditore singolo) e convenuto (fallito), pur essendo gli interessi di queste due parti del tutto antitetici: prima dell’apertura del concorso, infatti, tali soggetti litigavano su posizioni nettamente avverse l’una all’altra [34]. Assommando il curatore questa duplice rappresentanza, si viene ad instaurare quindi un rapporto processuale non più trilaterale – essendo ormai pacifico che nel giudizio di revocatoria si trovano, secondo la dottrina in assoluto maggioritaria, in qualità di litisconsorti necessari, il creditore e suo debitore fallito, nonché l’avente causa di quest’ultimo [35] –, ma bilaterale: nella fattispecie, proseguiranno il giudizio il curatore fallimentare (in questa sua duplice e contraddittoria veste) e il terzo beneficiario dell’atto dispositivo impugnato, che in tal modo subisce la perdita dell’“alleanza” con il fraudator [36]. Questa scissione di ruoli – quale esito inevitabile secondo la dottrina che propugna la possibilità di subentro del curatore in luogo del creditore – è stata ritenuta di dubbia tenuta sistematica già nel vigore del Codice di commercio [37], attraverso critiche che, giusta l’attuale dettato dell’art. 66 L. Fall., sono state ampiamente richiamate dalla dottrina più recente [38]. Era già stato efficacemente [continua ..]
Sotto una prospettiva differente, uno dei nodi teorici critici per l’interprete, sollevati sempre dalla tesi dell’esclusività della legittimazione del curatore a proseguire l’azione revocatoria già pendente, riguarda la natura dell’istituto di diritto processuale che consentirebbe al curatore fallimentare di “subentrare” al creditore, per effetto dell’interruzione del processo provocata dalla dichiarazione di fallimento. Se da una parte la dottrina ha, infatti, tentato di dare a tale subentro un inquadramento teorico coerente con gli istituti già disciplinati dal Codice di rito, dall’altra non è stato possibile non rilevare come, a stretto rigore, nessuna delle figure regolate dal Codice di procedura civile (intervento in giudizio ex art. 105 c.p.c., sostituzione processuale ex art. 81 c.p.c., successione nel processo ex artt. 110 o 111 c.p.c.) rappresentanza ex lege sia applicabile alla fattispecie in esame. Non si potrebbe, infatti, sostenere che il curatore intervenga in giudizio in via principale ex art. 105 c.p.c.: perché ciò avvenga, è stato ragionevolmente sostenuto, sarebbe infatti indispensabile che le altre parti partecipino ancora nel giudizio riassunto: l’intervento comporta infatti un inserimento tra gli altri litiganti per far valere un diritto affermato come proprio nei confronti e dell’uno e dell’altro contendente, in ordine all’oggetto e al titolo dedotto in giudizio. È quindi presupposto logico indispensabile, per poter intervenire, la presenza di altri due soggetti che stanno già litigando in giudizio: tale presenza tuttavia, si è rimarcato, non è più garantita una volta instauratosi il fallimento, atteso che la figura del curatore “esclude”, di per sé, quella del debitore alienante poi fallito e quella del creditore singolo, determinando dunque una “falcidia” nel numero dei soggetti che partecipano al giudizio. In altri termini: nel caso in esame, per effetto della dichiarazione di fallimento, l’attore principale originario e, in ogni caso, il debitore convenuto escono dalla scena processuale nel momento in cui vi entra, al loro posto, il curatore; permane invece, isolata, la figura del terzo beneficiario dell’atto revocando. È evidente, dunque, che per effetto dell’esclusione dal processo di questi soggetti, non [continua ..]
Per superare questi inconvenienti, si è fatta strada l’ipotesi di una sostituzione processuale ex art. 81 c.p.c.: il curatore intenzionato a subentrare nel processo già pendente, al fine di ottenere la dichiarazione di inefficacia dell’atto ritenuto fraudolento, potrebbe raggiungere tale obiettivo in due modi: stando in giudizio in luogo del debitore fallito in forza dell’art. 43 L. Fall., o, in alternativa, sostituendosi in forza dell’art. 81 c.p.c. al singolo creditore [47]. Se tuttavia il curatore si mostra interessato alla pronuncia di revoca dell’atto fraudolento, è stato obiettato, la prima ipotesi andrebbe immediatamente scartata: è facilmente intuibile che la curatela, quando agisce per l’impugnativa degli atti fraudolenti del fallito, non si qualifica come sostituto processuale di quest’ultimo, perché “occorrerebbe pur sempre che i relativi diritti d’impugnativa competessero al fallito, mentre essi sono unicamente a presidio dei creditori” [48]. L’unica strada percorribile per il curatore sarebbe allora quella, nel caso in cui scelga di assumere il ruolo di sostituto del fallito, di “ignorare” in toto la sua veste, avendo semmai ogni interesse a far cadere le precedenti difese del debitore [49]. Se invece egli, per partecipare al giudizio, intendesse sostituirsi processualmente al singolo creditore [50], entrerebbero in gioco ulteriori obiezioni strettamente connesse a quelle supra rilevate: una sostituzione tecnica ex art. 81 c.p.c. da parte del curatore al creditore singolo non è ammissibile se si propugna una diversità di petitum tra l’azione del creditore e quella del curatore [51]. E infatti, va rilevato che un soggetto può legittimamente sostituirsi ad un altro soltanto qualora l’azione fatta valere in giudizio sia la medesima, e non venga mutato il petitum [52]; ma se l’inopponibilità alla massa creditoria dell’atto fraudolento richiesta dal curatore è di gran lunga più ampia, e “contiene” in sé, quella minore precedentemente richiesta dal singolo creditore, non risulta possibile concepire una sostituzione del curatore al creditore nell’esercizio dell’azione in corso [53]. In secondo luogo, anche volendo soprassedere rispetto a una simile obiezione, e volendo quindi considerare il [continua ..]
Ritenuto che non sia possibile ascrivere il fenomeno del subentro del curatore al creditore nell’istituto dell’intervento, sia esso principale o adesivo, e in quello della sostituzione di cui all’art. 81 c.p.c., alcuni Autori [59] hanno tentato di inquadrare la vicenda processuale all’interno dell’istituto della “successione nel processo”, quale disciplinata dell’art. 110 o dall’art. 111 c.p.c., caratterizzati dal fatto che il curatore si vedrebbe attribuita, stavolta sì, la qualità di destinatario degli effetti dell’azione previamente intentata dal creditore, nonché dal vantaggio di non dover soggiacere a stringenti limiti temporali per l’ingresso nel procedimento pendente, legati allo stadio più o meno maturo di progressione della lite [60]. Anche tale soluzione, tuttavia, non è apparsa in dottrina del tutto coerente con il tradizionale schema di subentro del curatore, ed in particolare con lo speculare “allontanamento” dal processo del creditore: e infatti, se da una parte nessuno dei litiganti originari può intendersi “venuto meno” ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 110 c.p.c., dall’altra si può affermare che a seguito dell’ingresso nel processo del successore ex art. 111 c.p.c. (in questo caso, il curatore), non dovrebbe, a stretto rigore, conseguire automaticamente l’estromissione del dante causa (il creditore). Estromisssione che, viceversa, dovrebbe essere subordinata ad un’apposita istanza di quest’ultimo, rispetto alla quale è poi necessario il consenso delle altre parti [61]. Da ultimo, anche volendo soprassedere su tali obiezioni, si potrà intuire come, atteso che l’istituto della successione nel processo si caratterizza per “il subentrare di un soggetto al posto di un altro in un rapporto giuridico che rimane identico” [62], la soluzione così adombrata potrebbe risultare condivisibile soltanto da coloro che ravvisino che la domanda previamente fatta valere dal creditore e quella, intervenuta successivamente, del curatore, siano identiche. Di conseguenza, non profilandosi altri sbocchi, non è mancato chi, seppur con molte riserve, ha parlato di “trasformazione” o “conversione nell’azione” [63].
Sulla scia di questi rilievi critici, si può ora analizzare il problema dell’inquadramento tecnico del subentro del curatore così come affrontato e risoldo in sede giurisprudenziale. Nella maggior parte dei casi, per la verità, si è inquadrato l’ingresso del curatore nel giudizio pendente nei termini di una “sostituzione”, con richiami all’art. 81 c.p.c. [64]; pur tuttavia, non sono mancati riferimenti all’istituto dell’intervento in giudizio [65], mentre in altri casi ancora si è giunti a invocare il differente fenomeno della successione universale nel processo ex art. 110 c.p.c. [66], senza mai pervenire ad una soluzione coerente e definitiva: e infatti, la conclusione a cui la Suprema Corte è approdata è stata quella, da una parte, di dubbio rigore sistematico e quindi poco soddisfacente su un piano teorico, di una “speciale legittimazione sostitutiva”, e dall’altra, più recentemente, sia pur in modo implicito, come osservato in dottrina [67], di una rappresentanza ex lege dei creditori da parte del curatore fallimentare [68].
Come si è visto, la tesi dell’esclusività della legittimazione del curatore si fondava anche sul principio secondo cui, nel campo di applicazione dell’art. 51 L. Fall. rientrerebbero le azioni “indirettamente esecutive”, nel novero delle quali, si è detto, dovrebbero rientrare le azioni prodromiche ad esecuzioni future. Anche tale argomento, tuttavia, non è passato indenne da critiche [69]. Innanzitutto, è stato osservato come l’art. 51 L. Fall. non si riferisca sic et simpliciter a tutte le esecuzioni correlate alla procedura, ma soltanto a quelle con cui i creditori intendono aggredire beni ricompresi nel patrimonio attivo. Il divieto di azioni esecutive previsto dalla norma presuppone infatti che il bene aggredibile sia inserito nella massa, vuoi per un effetto automatico ex lege ai sensi degli artt. 42 e ss. L. Fall., vuoi per il fruttuoso recupero mediante le azioni di recupero esperite dal curatore. Rimangono dunque fuori dal suo orizzonte applicativo, e quindi aggredibili da ciascun creditore, i beni che alla massa sono estranei, i quali non saranno aggredibili ai sensi dell’art. 51 L. Fall. sino a quando il curatore non avrà agito con successo per il loro recupero. In altri termini, nel caso di revocatoria ordinaria non si tratta di aggredire un bene del fallito, ma un bene del terzo (il beneficiario dell’atto revocando). In secondo luogo, l’art. 51 L. Fall. menziona in maniera tanto esclusiva, quanto tassativa, le azioni esecutive, e non si occupa affatto dei giudizi di cognizione ad esse eventualmente prodromiche, e dunque dell’azione pauliana [70]. È stato infatti efficacemente puntualizzato che soltanto la realizzazione di “quel fine solipsistico” costituito dall’esecuzione sui beni, e non già il suo perseguimento attraverso la posizione delle premesse decisorie cognitive, lederebbe il valore egalitario tutelato dalla norma, ovvero la par condicio creditorum [71].
La critica forse più penetrante nei confronti della tesi dell’esclusività della legittimazione in capo al curatore, tuttavia, è stata mossa soltanto quando in dottrina si è tentato di smentire il postulato secondo il quale la nascita di legittimazione ad esperire le azioni di recupero in capo al curatore fallimentare determini tout court, in via speculare e automatica, il venir meno di ogni interesse concreto ed attuale ad agire o a proseguire l’azione già esperita ex art. 100 c.p.c. da parte del creditore individuale: tale tesi, come si è visto, si fondava, tra gli altri, sull’assunto per cui gli interessi individuali dei singoli creditori a veder soddisfatto il proprio credito, sarebbero già tutelati – e quindi ampiamente assorbiti – dall’operato dell’organo istituzionale preposto al ripristino della garanzia patrimoniale spettante alla massa attiva. Anche questo assunto è stato, però, oggetto di critica: e infatti, volendo tralasciare, come è stato osservato, il discusso insegnamento per cui, trattandosi di azione (secondo la dottrina e la giurisprudenza oggi maggioritarie) costitutiva [72], l’interesse ad agire nell’azione revocatoria ordinaria deve reputarsi in re ipsa, per il solo fatto che il legislatore abbia concesso, nella situazione data, questa particolare forma di tutela [73], è stato infatti rilevato che vi possono essere alcuni casi in cui l’interesse del singolo creditore-attore a coltivare la sua azione ed ottenere in questo modo una sentenza di revoca, non solo non contrasta fatalmente con quello della massa dei creditori, ma può viceversa risolversi in un giovamento per la massa stessa [74]. La critica, per il vero, si è sviluppata principalmente secondo un metodo casistico, volto a enucleare un’ampia e articolata serie di ipotesi in cui l’interesse ad agire del singolo creditore persiste nonostante l’apertura del fallimento, rimanendo l’azione individuale adeguata a raggiungere i propri scopi originari e non interferendo con gli interessi, ad essa concorrenti, della massa creditoria. Si è pensato, in primo luogo, al possibile verificarsi di un caso in cui il fallimento venga dichiarato – e l’azione pendente venga interrotta – oltre cinque anni dopo il compimento dell’atto ritenuto fraudolento, [continua ..]
In considerazione di quanto appena affermato, e volendo dunque testare sul piano del “diritto in azione” gli esiti ultimi della tesi dottrinale ora esposta secondo cui al singolo creditore non è preclusa, per effetto del fallimento, la possibilità di continuare a coltivare la propria azione individuale, è stato quindi indagato quale potrebbe essere l’iter processuale dell’actio pauliana pendente, a seguito della dichiarazione di fallimento del debitore convenuto [80]: il processo, inevitabilmente, verrà dichiarato interrotto dal giudice, anche d’ufficio [81], ma la riassunzione – e qui giace il punto di rottura rispetto alla lezione “ortodossa” – potrà avvenire per impulso di quegli stessi tre soggetti con i quali esso era originariamente iniziato: il creditore-attore, il terzo convenuto, o infine il curatore, in qualità di rappresentante del debitore-fallito ex art. 43 L. Fall. [82]. In questo caso, le valutazioni del curatore fallimentare potranno condurre principalmente a due opposte scelte: in primo luogo, egli, ritenendo l’azione pauliana fondata, avrà interesse ad intervenire nel procedimento in corso, per far sì che i vantaggi dell’accoglimento della domanda di revoca ricadano sull’intera massa creditoria da lui rappresentata, e non già sul singolo creditore individuale, con il quale, in questo caso, entrerebbe in diretto conflitto. La curatela, sempre secondo la ricostruzione in esame, potrà dunque inserirsi nel procedimento pendente in virtù della propria autonoma legittimazione, in qualità di soggetto terzo, che rappresenta gli interessi di tutti i creditori concorsuali, mediante l’esperimento di un intervento ad excludendum iura utriusque litigatoris, ex art. 105, 1° comma, c.p.c. Con tale intervento, il curatore intenderà quindi affermare un diritto autonomo del fallimento alla revoca dell’atto fraudolento, diritto diverso e incompatibile con quello già fatto valere dall’attore singolo [83]. In un’ipotesi del genere [84], potrà accadere che la sentenza accolta sia la domanda del creditore originario, sia quella del curatore interveniente: ipotesi che, nel diritto comune, scatenerebbe un conflitto tra le due parti vincitrici durante la fase esecutiva della causa, dal momento che ciascuno dei due [continua ..]
Una volta ripercorse le argomentazioni su cui si fonda la tesi che propugna la possibile coesistenza tra l’azione individuale del singolo creditore, e quella della curatela, è possibile gettare uno sguardo alle pronunce giurisprudenziali in materia degli ultimi anni. Si può constatare come la tesi innovativa in materia di legittimazione a proseguire la revocatoria ordinaria calata in ambiente fallimentare sia stata accolta al primo livello delle decisioni di merito, quale “sintomo evidente di insoddisfazione verso l’insegnamento soltanto sino a ieri supinamente ricevuto” [89]. E infatti, le corti di prime cure hanno serbato nei confronti della dottrina in esame un’attenzione sollecita, che si è poi riversata in numerosi dispositivi delle pronunce edite in subjecta materia: se si è iniziato più recisamente, con il prendere atto che qualora “il curatore potesse subentrare al creditore attore, finirebbe al tempo stesso per subentrare necessariamente anche al posto del convenuto fallito, in certo senso agendo contro se stesso, il che deve ritenersi processualmente assurdo” [90], la frattura è stata tuttavia aperta soltanto quando, nel tentativo di verificare la “tenuta” della tesi tradizionale, si è esplicitamente constatato che “il tema della esperibilità dell’azione revocatoria ordinaria, in costanza di fallimento, è uno di quelli in ambito concorsuale sul quale è più mancato, sino a poco tempo fa, l’approfondimento in giurisprudenza e in letteratura; infatti solo di recente (…) alcuni studiosi si sono preoccupati di offrire delle soluzioni ‘dignitose’ al problema del subentro del curatore” [91]. Nonostante tali premesse, tuttavia, la ricerca di una soluzione armonica, coerente con i principi che informano la procedura fallimentare e al contempo rispettosa delle categorie dogmatiche processualcivilistiche, è stata scandita da un travagliato conflitto giurisprudenziale di durata ormai decennale, che si è irradiato, da ultimo, anche in sede di legittimità. Al riguardo, può forse essere utile dividere le pronunce in tre diversi filoni. Del primo, fanno parte una serie di sentenze tra loro omogenee, che rimangono fedeli alla lezione più ortodossa [92]; al secondo gruppo, invece, appartiene un numero di pronunce, oggi [continua ..]
Volgendo lo sguardo verso le ultime pronunce inerenti la materia in oggetto, si può dire che l’orientamento delle Sezioni Unite si è, nei tempi più recenti, ormai stabilizzato [103]. Se si soprassiede dunque rispetto alle reazioni di plauso [104] o di critica [105] che hanno accolto la decisione in esame nella letteratura giuridica, che sono agevolmente intuibili secondo che si considerino gli Autori allineati o non allineati sulle posizioni della corrente dottrinaria più “riformista” [106], la pronuncia non ha mancato di sollecitare alcuni ultimi, piuttosto concisi, spunti critici. Innanzitutto, si può porre luce sulle conseguenze che il subentro del curatore nella posizione attorea comporta in relazione alla tenuta del principio audiatur et altera pars: è stato rilevato che il sistema così descritto potrebbe patire, infatti, un pericoloso perturbamento sul piano del diritto al contraddittorio, poiché nessuno più, nel giudizio pendente, porterebbe avanti le ragioni del debitore fallito; con ciò, si produrrebbe una inesorabile dispersione dell’attività difensiva da questi svolta fino al momento dell’interruzione del giudizio: il terzo, rimasto solo a fronteggiare le pretese del fallimento, potrebbe allora reagire facendo propri gli atti di causa e le risultanze istruttorie sinora fatte acquisire dal debitore, ma la loro consistenza ed efficacia risulterebbe di fatto compromessa, salvo il “ricorso ad alchimie procedurali per mantenere in vita acquisizioni ritenute determinanti ed imprescindibili ai fini di verità” [107]. È stato poi sottoposto ad un severo scrutinio il principio, sancito dalla Corte, secondo cui l’effetto di “allontanamento” dal processo patito dal creditore originario, quando il curatore decida di sottentrare nel giudizio, scaturisce in egual misura sia da un subentro del curatore nel giudizio preesistente, sia dall’esercizio di un’azione autonoma ex art. 66 L. Fall.: le due ipotesi non paiono essere pianamente equiparabili, a meno che non si voglia tollerare qualche forzatura processuale [108]. Il declassamento dell’interesse ad agire che patisce il singolo creditore ha, infatti, una sua ragion d’essere soltanto qualora venga rilevato dal curatore all’interno del giudizio in fieri, ove il rappresentante della massa facesse [continua ..]
Alla luce dell’esposizione ora svolta, è ora possibile, come da programma, analizzare criticamente le tesi che si stagliano in materia di legittimazione ad esperire ex novo l’azione revocatoria ordinaria, ai sensi dell’art. 2901 c.c., da parte del creditore singolo, dopo la dichiarazione di fallimento. Anche in questo caso, si alternano, in letteratura, due opposte ricostruzioni: secondo la tesi più restrittiva, la legittimazione attribuita al curatore ad agire in revocatoria ex art. 66 L. Fall. avrebbe, anche in questo caso, carattere esclusivo e inderogabile. Ne conseguirebbe che l’azione pauliana esperita ab initio dal singolo creditore dopo l’apertura del fallimento sarebbe inammissibile: la tesi, come si è già visto nei paragrafi che precedono, cui si rinvia, si fonda sul principio della par condicio creditorum (non potendosi, in pendenza di fallimento, dare lo scenario per cui un singolo creditore si avvantaggi su un bene in via prioritaria rispetto agli altri che con lui potrebbero astrattamente concorrere); sul divieto di azioni esecutive ex art. 51 L. Fall., nel novero delle quali rientrerebbe anche l’actio pauliana, quale azione “indirettamente” esecutiva; sul ruolo del curatore quale “aggregatore” degli interessi della massa e sulla conseguente perdita di interesse ad agire ex art. 100 c.p.c. da parte del creditore singolo per effetto della dichiarazione di fallimento [118]. Secondo l’opposta corrente, il creditore singolo sarebbe legittimato a promuovere ex novo l’azione revocatoria anche dopo la dichiarazione di fallimento, potendo essere poste a fondamento di tale soluzione le stesse argomentazioni già viste in materia di proseguibilità dell’azione già iniziata da parte del creditore singolo nel corso della procedura concorsuale. La legittimazione del creditore ad esperire ab initio l’azione in pendenza di fallimento non verrebbe inibita, infatti, dall’art. 51 L. Fall.: come si è visto, tale norma vieta il promovimento di azioni esecutive sui beni del fallito, non di azioni di cognizione volte alla declaratoria di inefficacia di un atto e al potenziale “recupero”, con aggressione in sede esecutiva, di un bene di un terzo [119]; inoltre, si è detto, in numerose ipotesi – quelle già ripercorse supra – il creditore avrebbe interesse ad agire in [continua ..]
Nel presente lavoro si è visto come il dibattito in materia di legittimazione ad esperire o proseguire l’azione revocatoria ordinaria in pendenza di fallimento, esordito nel vigore dell’art. 708 del Codice di commercio, non sia ancora sopito. Dopo aver ripercorso le tesi che si stagliano in materia, si è tentato di dimostrare come la soluzione interpretativa preferibile appaia quella che predica una possibile coesistenza tra l’azione pauliana del curatore ex art. 66 L. Fall. e quella del creditore singolo ex art. 2901 c.c., anche dopo l’apertura del fallimento, trattandosi di domande giudiziali diverse e non incompatibili. In altri termini, si è visto come l’azione ordinaria pendente al momento della dichiarazione di fallimento dovrebbe essere ritenuta proseguibile a prescindere dall’operato del curatore, che potrebbe tutelare gli interessi della massa concorsuale non già “sostituendosi” all’attore, ma intervenire in via principale nel giudizio in corso o, laddove ritenuto strategicamente più conveniente, promuovere una diversa azione pauliana. Allo stesso modo, e per le stesse ragioni analizzate, l’azione esperita ex novo dal creditore singolo dovrebbe ritenersi ammissibile. La soluzione proposta dalla dottrina “revisionista”, non ancora accolta in giurisprudenza, appare non solo, come si è visto, la più rigorosa sul piano dei principi che pervadono il diritto processuale civile e quello fallimentare, ma anche la più efficace: l’operato del creditore che promuova o prosegua un’azione pauliana può, infatti, soltanto avvantaggiare la massa dei creditori concorsuali, e mai pregiudicarne gli interessi.