Il Diritto Fallimentare e delle Società CommercialiISSN 0391-5239 / EISSN 2704-8055
G. Giappichelli Editore

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Le principali questioni analizzate dalla giurisprudenza in tema di esercizio provvisorio e di vendita e affitto d'azienda (di Andrea Penta (Consigliere della Corte di Cassazione))


Il presente contributo analizza le principali questioni che, all’indomani della riforma della legge fallimentare e del decreto correttivo, sono state sottoposte al vaglio della giurisprudenza, di merito e di legittimità, in tema di esercizio provvisorio dell’impresa e di affitto/vendita di azienda (o di suoi rami), dedicando altresì un approfondimento ai poteri istruttori del Tribunale nella fase prefallimentare nell’ottica dell’adozione di misure cautelari e al ruolo nevralgico del curatore fallimentare.

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The present paper analyzes the main issues that, following the reform of the bankruptcy law and the corrective decree, have been subject to the scrutiny of jurisprudence, merit and legitimacy, in terms of the provisional exercise of the company and the lease/sale of company (or its branches), also devoting a deepening to the powers instructors of the Court in the pre-bankruptcy phase in view of the adoption of precautionary measures and the nerve role of the bankruptcy trustee.

 
SOMMARIO:

1. L’esercizio provvisorio dell’impresa - 1.1. Il comportamento dell’imprenditore in crisi - 1.2. La scelta riservata al Tribunale - 1.3. L’esercizio provvisorio disposto con la sentenza dichiarativa di fallimento - 1.4. Il ruolo degli amministratori - 1.5. I poteri istruttori nella fase prefallimentare - 1.6. L’esercizio provvisorio disposto per decreto del giudice delegato - 1.7. Il ruolo del curatore - 1.8. La sorte dei rapporti pendenti - 2. L’affitto dell’azienda o di rami dell’azienda - 2.1. I presupposti applicativi - 2.2. La scelta dell’affittuario - 2.3. Il contratto d’affitto - 2.4. Il contenuto del contratto - 2.5. Gli effetti del contratto - 2.6. I rapporti giuridici pendenti, i debiti e i crediti - 2.7. La retrocessione al fallimento - 2.8. Il diritto di prelazione e il suo esercizio - 2.9. I rapporti di lavoro - 3. La vendita dell’azienda - 3.1. La forma della cessione d’azienda - 3.2. Le modalità di vendita - 3.3. La successione nei rapporti pendenti - 3.4. I contratti di lavoro dipendente - 3.5. I debiti sorti prima del trasferimento - 3.5.1. La sorte dei crediti - 4. Il conferimento d’azienda - NOTE


1. L’esercizio provvisorio dell’impresa

L’esercizio provvisorio dell’impresa del fallito è disciplinato all’art. 104 L. Fall. e si inquadra nel favor manifestato dal legislatore settoriale verso soluzioni che, anche dopo l’intervenuta declaratoria di fallimento, possano prevenire il rischio di dissoluzione definitiva di valori, soprattutto immateriali, di disgregazione di risorse, anche umane, e di costi per la collettività, che vanno ben oltre le perdite patrimoniali dirette subite dal ceto creditorio.


1.1. Il comportamento dell’imprenditore in crisi

L’imprenditore, per escludere lo stato di insolvenza, ha a disposizione lo strumento del pactum de non petendo, la cui efficacia, pur non condizionata all’adesio­ne di tutti i creditori, è tuttavia correlata alla sua idoneità – in relazione alla complessiva condizione debitoria dell’impresa e con riguardo alla scadenza delle obbligazioni escluse dal patto medesimo – ad escludere lo stato d’insolvenza del debitore, se ed in quanto esso testimoni la condizione di credito e di fiducia di cui gode il debitore nel ceto creditorio considerato nel suo complesso [1]. L’efficacia di siffatto accordo realizza una rinuncia temporanea del singolo creditore alla soddisfazione del suo credito; perciò, deve essere valutata nell’ottica della capacità del debitore di assolvere, in prospettiva, con puntualità e mezzi normali, al complesso delle obbligazioni residue alle scadenze convenute, estinguendole mediante le fonti di liquidità disponibili. La mera disponibilità di taluni creditori a concedere una dilazione di durata imprecisata al debitore non configura un pactum de non petendo e non consente di ritenere superato lo stato di insolvenza derivante dalla mancanza di liquidità sufficiente a saldare i debiti scaduti. Parimenti, ai fini dell’insolvenza è irrilevante di per sé una proroga accordata dai creditori al debitore, laddove l’esistenza di accordi remissori con i creditori (cc.dd. accordi a saldo e stralcio) sono idonei ad incidere sull’esigibilità parziale della prestazione.


1.2. La scelta riservata al Tribunale

Il Tribunale, qualora abbia la percezione che ricorrano i presupposti per disporre la continuazione temporanea dell’esercizio dell’impresa, deve acquisire, anche mediante la nomina di un consulente tecnico d’ufficio, un’appropriata conoscenza dei dati e della reale situazione aziendale. Il giudice dovrà condurre un giudizio di tipo prognostico: se si giunge alla conclusione per cui l’attività di impresa e/o di singoli rami della stessa, al netto degli oneri finanziari, conservi sufficienti margini di competitività sul mercato, potrà disporre l’esercizio provvisorio dell’impresa. All’uopo, rilevante è l’attività collaborativa dell’imprenditore in crisi, il quale elabora e giustifica un piano, che descriva le caratteristiche organizzative e operative dell’impresa fallita, dei suoi punti di forza e di debolezza, delle sue prospettive in termini di business e di capacità competitiva, della sussistenza dei presupposti per un’utile prosecuzione dell’attività aziendale (quali portafoglio ordini, risorse finanziarie, ecc.), nonché di ragionevoli aspettative di una sua vantaggiosa ricollocazione sul mercato in alternativa alla ipotesi disgregativa.


1.3. L’esercizio provvisorio disposto con la sentenza dichiarativa di fallimento

L’art. 104 L. Fall. disciplina due ipotesi di esercizio provvisorio dell’impresa, il cui discrimen non è solo temporale, ma anche relativo ai presupposti oggettivi e al­l’iter procedurale previsto per l’adozione dei provvedimenti. In particolare, il Tribunale può disporre l’esercizio provvisorio dell’impresa, anche limitatamente a specifici rami dell’azienda, con sentenza dichiarativa di fallimento [2], la quale, inoltre, non estingue il potere di autorizzazione ufficiosa dell’e­sercizio provvisorio, qualora emergano elementi che facciano ritenere che nell’am­bito dell’istruttoria prefallimentare non sia stata adeguatamente rappresentata l’esi­stenza di quel «danno grave» che ne costituisce il presupposto [3]. La decisione del Tribunale muove dal legittimo convincimento che la prosecuzione dell’attività dell’impresa insolvente non produca nel corso della procedura ul­teriori passività (peraltro prededucibili e che andrebbero a discapito dei creditori di massa, ex artt. 111 e 111-bis L. Fall.), ma assicuri, almeno nel breve periodo, un risultato complessivamente positivo, quantomeno garantendo la copertura dei costi con i ricavi (cd. criterio economico puro) o con la seria prospettiva che la successiva vendita dell’azienda in continuità produttiva assicuri un migliore e più rapido realizzo il cui valore copra (sotto forma di surplus) anche l’eventuale perdita di periodo. Ai fini dell’autorizzazione dell’esercizio provvisorio, il 1° comma dell’art. 104 L. Fall. pone, come condizione, la ricorrenza del danno grave e fissa il limite del pregiudizio dei creditori. La valutazione del danno, determinato dalle poste di danno emergente e lucro cessante, tiene conto delle più ampie conseguenze che l’inter­ruzione dell’attività di impresa possa comportare su interessi superindividuali (sistema industriale) e individuali (relativo al ceto creditorio) [4]. Siccome il legislatore nulla dice sui soggetti ai quali debba essere riferito il “danno grave”, la continuazione dell’impresa del fallito può essere disposta per sod­disfare anche interessi diversi da quelli dei creditori, quando realizzi contemporaneamente la valorizzazione [continua ..]


1.4. Il ruolo degli amministratori

La prima e più chiara indicazione in ordine alla ricorrenza dei presupposti per disporre un eventuale esercizio dell’impresa da parte del Tribunale potrebbe (recte, dovrebbe) provenire proprio dal managment dell’impresa in stato di decozione [11]. Talvolta, infatti, la necessità di predisporre l’esercizio provvisorio in caso di fallimento potrebbe essere espressamente sollecitata o, almeno, favorita dagli amministratori, che rivestono un ruolo determinante nell’eventuale ricorso all’esercizio provvisorio, disposto in sentenza o frutto della successiva istanza avanzata dalla curatela. A carico degli amministratori grava un obbligo di rilevare tempestivamente l’in­solvenza per porre in essere le iniziative volte a contenere gli effetti negativi della crisi, instando per il fallimento della società rappresentata [12] o, in sede prefallimentare, allegando una relazione da cui si evincano, in uno alla documentazione prevista dall’art. 15, 5° comma, L. Fall., problematiche ed opportunità sottese ad una eventuale prosecuzione dell’attività di impresa. Potrebbero indurre l’organo gestorio a collaborare con il Tribunale, segnalandogli l’eventualità di disporre l’esercizio provvisorio, le previsioni di cui agli artt. 217 e 224 L. Fall., alla cui stregua sono puniti l’imprenditore e/o gli amministratori, i di­rettori generali, i sindaci ed i liquidatori di società dichiarate fallite i quali, non chie­dendo il fallimento, abbiano aggravato il dissesto, protraendo l’attività imprenditoriale nonostante la presa d’atto dell’insolvenza o la sua colposa ignoranza.


1.5. I poteri istruttori nella fase prefallimentare

Descritto il ruolo degli amministratori nella gestione della crisi, non si può dimenticare che nella fase prefallimentare, deputata all’accertamento dei presupposti per la dichiarazione di fallimento, il collegio, sin dal momento in cui emana il decreto di convocazione e anche dopo la sua emissione, può richiedere eventuali informazioni urgenti in limitati casi ed avvalersi dei propri poteri istruttori d’ufficio solo allorquando, all’esito (e nei limiti) delle deduzioni e delle eventuali allegazioni delle parti, permanga il dubbio su alcuni aspetti rilevanti ai fini della decisione. I mezzi istruttori disponibili d’ufficio sono diretti esclusivamente a verificare gli assunti delle parti e non possono violare la norma fondamentale contenuta nell’art. 115 c.p.c. Gli stessi, dovendo restare nell’alveo della tipicità, potranno sostanziarsi: nel­l’ordine di esibizione di libri e scritture ex artt. 210 c.p.c. e 2711, 2° comma, c.c.; nel­l’acquisizione, ai sensi dell’art. 213 c.p.c., di informazioni scritte relative ad atti e documenti in possesso di pubbliche amministrazioni o, non essendovi incompatibilità tra l’istruttoria prefallimentare e le prove di lunga indagine, nell’espletamento di una consulenza tecnica; nell’ispezione su cose (art. 118 c.p.c.), essendo, ad esempio, configurabile l’accesso nei luoghi.


1.6. L’esercizio provvisorio disposto per decreto del giudice delegato

Alternativo al modello di esercizio provvisorio disposto dal Tribunale in sede di sentenza dichiarativa di fallimento è quello autorizzato con decreto motivato del giudice delegato, su proposta del curatore e previo parere favorevole del comitato dei creditori. Il curatore, cui è riservato il potere di iniziativa in via esclusiva ed al quale è lasciato un ampio margine discrezionalità sull’opportunità e convenienza della continuazione dell’attività d’impresa, in vista di un miglior risultato della liquidazionecon­corsuale, avrà l’onere di valutare l’esistenza di circostanze tali da consigliare la richiesta agli organi della procedura di riprendere (ove già non disposto nella sentenza dichiarativa di fallimento) l’esercizio dell’impresa fallita (o di rami di essa). Sulla base della proposta del curatore, che dovrà essere modulata in via adeguata alla natura e alle dimensioni dell’impresa (o del ramo di azienda), il comitato dei creditori e, successivamente, il giudice delegato possono effettuare il giudizio di convenienza in merito alla prosecuzione della attività. Il parere favorevole del comitato dei creditori, che si pone come conditio sine qua non rispetto alla facoltà autorizzatoria di competenza del giudice, è solo parzialmente vincolante, dal momento che non obbliga l’autorità giudiziaria ad autorizzare la continuazione dell’attività d’impresa, potendo essa discostarsene anche parzialmente, ad esempio autorizzando la prosecuzione limitatamente a specifici rami di azienda. Di contro, in caso di parere negativo, ci troveremmo di fronte ad un vero e proprio veto che precluderebbe la possibilità per il giudice di autorizzare la continuazione temporanea dell’esercizio dell’impresa. La difficoltà di una tempestiva nomina e costituzione del comitato dei creditori, laddove sia necessario che intervenga una decisione in materia nell’immediatezza della dichiarazione di fallimento, rende ammissibile l’intervento surrogatorio del giudice ex art. 41, 4° comma, L. Fall., fermo restando l’obbligo del curatore di attivarsi immediatamente per la costituzione dell’organo rappresentativo del ceto creditorio, in considerazione dei suoi diritti di informazione e poteri decisionali previsti [continua ..]


1.7. Il ruolo del curatore

Una volta autorizzato l’esercizio provvisorio, al fallito è riservata (recte, conservata) la titolarità dell’impresa, mentre la sua gestione spetta al curatore. A carico di quest’ultimo è posto l’onere di garantire costanti flussi informativi verso gli altri organi della procedura, nonché l’obbligo di convocare il comitato dei creditori almeno ogni tre mesi per informarlo sull’andamento della gestione e per pronunciarsi sull’opportunità di proseguire l’esercizio. Il curatore è, altresì, obbligato alla rendicontazione semestrale periodica, nonché di fine esercizio, mediante deposito in cancelleria del relativo documento, nel termine di sessanta giorni dalla scadenza del semestre o dalla cessazione dell’esercizio provvisorio, in applicazione analogica di quanto previsto per la relazione ex art. 33 L. Fall. [17]. Invero, la continuazione temporanea dell’impresa comporta la sostituzione del curatore al fallito nella gestione dell’azienda, in virtù dello spossessamento determi­natosi con l’apertura della procedura concorsuale. L’azienda era e rimane del fallito, mentre il curatore si sostituisce a lui per volontà di legge nell’amministrazione di tutto il suo patrimonio, al fine di provvedere alla soddisfazione dei crediti ed all’im­putazione degli effetti dell’esercizio che ricadranno sulla procedura. L’organo gestorio, nel corso dell’esercizio provvisorio, potrà sicuramente farsi autorizzare per essere coadiuvato da tecnici ed esperti nella conduzione dell’impre­sa ed avvalersi di consulenti, tenuto conto delle dimensioni dell’impresa decotta e delle esigenze contingenti da affrontare. Il provvedimento del Tribunale o del giudice delegato che dispone l’esercizio provvisorio si pone come generale e preventiva autorizzazione del curatore a porre in essere tutti i singoli atti di gestione ordinaria e straordinaria, salvo i limiti eventualmente previsti nei provvedimenti autorizzatori e le restrizioni di cui all’art. 35 L. Fall. [18]. Nel caso in cui la continuazione dell’attività imprenditoriale sia diretta alla salvaguardia del complesso produttivo in vista della sua cessione in blocco, il curatore potrà compiere qualsiasi attività che sia funzionale alla migliore prospettiva di realizzo [continua ..]


1.8. La sorte dei rapporti pendenti

Il 7° comma dell’art. 104 L. Fall. prevede che, qualora si dia corso all’esercizio provvisorio, i contratti pendenti proseguono, salvo che il curatore non intenda sospenderne l’esecuzione o scioglierli. Qualora il curatore opti per la sospensione del contratto, l’altro contraente potrà mettere in mora la curatela (c.d. actio interrogatoria), facendogli assegnare dal giudice delegato un termine massimo di 60 giorni, decorso il quale il contratto, salva diversa volontà del curatore medesimo, deve intendersi sciolto [20]. Quanto alla sorte dei crediti, quelli successivi al termine dell’esercizio provvisorio sono prededucibili soltanto nel caso in cui il curatore (al termine dell’esercizio provvisorio) abbia optato per il subentro nel contratto; i crediti relativi alla pendenza dell’esercizio sono sempre sicuramente prededucibili; infine, per quelli sorti anterior­mente al fallimento, la loro prededucibilità dipende dal fatto che, al termine dell’e­sercizio provvisorio, il curatore abbia scelto di subentrare, anziché di sciogliersi, dal contratto [21]. In presenza di esercizio provvisorio dell’impresa fallita, rispetto ai contratti ad esecuzione continuata o periodica pendenti al momento della dichiarazione di fallimento, in ragione dell’unicità del rapporto contrattuale consistente in una pluralità di prestazioni, il credito vantato potrà essere valutato in modo frazionato e non in modo unitario. Dunque, una parte dei crediti (ossia quelli sorti dal contratto in corso di esercizio provvisorio) deve essere pagata in prededuzione e l’altra (quella concernente il periodo anteriore) ha natura concorsuale [22].


2. L’affitto dell’azienda o di rami dell’azienda

L’affitto dell’azienda o di rami di essa rappresenta uno degli strumenti più idonei a soddisfare le esigenze conservative degli assets societari in funzione della migliore liquidazione. Sia l’esercizio provvisorio dell’impresa che l’affitto dell’azienda costituiscono mi­sure di conservazione del patrimonio dell’imprenditore fallito in vista della successiva liquidazione dei beni, ma con una sostanziale differenza quanto al profilo della ripartizione del rischio d’impresa: mentre con l’esercizio provvisorio lo stesso rimane in capo alla procedura, con l’affitto d’azienda viene trasferito all’affittuario, evitandosi così il pericolo di accumulare una debitoria prededucibile ai danni della massa. In quest’ottica, l’art. 104-bis, 1° comma, L. Fall. è ispirata dalla duplice esigenza di conservazione del complesso aziendale e di preparazione delle condizioni più favorevoli alla sua alienazione. L’affitto d’azienda permette di mantenere in vita l’organismo aziendale per un periodo più o meno lungo, necessario ad inventariare i beni e stimarne il valore ed, infine, porre in essere le procedure di vendita. In ipotesi del genere l’affitto diazienda rappresenta un’alternativa più vantaggiosa rispetto all’esercizio provvisorio. Que­st’ultimo, infatti, comportando una gestione diretta da parte del curatore e l’imme­diata assunzione di obbligazioni prededucibili, grava, come detto, la procedura di numerosi e sensibili rischi. Il concetto di azienda preso in considerazione in sede fallimentare, a differenza di quanto definito dall’art. 2555 c.c., è dilatato sino a ricomprendere un complesso di elementi oggettivi e soggettivi individuato non quale struttura dotata di capacità produttiva, ma piuttosto come coacervo da tenere riunito per conseguirne la conservazione in funzione di una vendita più proficua. La giurisprudenza ha specificato che è ricompreso nel concetto di azienda qualsiasi complesso di beni di per sé idoneo a consentire lo svolgimento di una determinata attività d’impresa, anche quando il nuovo titolare debba integrare l’insieme dei beni trasferiti con ulteriori fattori produttivi, a condizione che i beni mancanti non sia­no tali da alterare l’unità economica e [continua ..]


2.1. I presupposti applicativi

L’art. 104-bis, 1° comma, L. Fall., attribuisce in via esclusiva il potere di iniziativa al curatore, il quale avrà il compito di valutare ed esporre le ragioni di convenienza di un eventuale affitto di azienda, di scegliere l’affittuario e di predisporre il relativo contratto. Previa stima del valore dell’azienda e dopo aver stabilito il canone di locazione, il curatore dovrà ottenere il parere vincolante del comitato dei creditori e l’autorizza­zione del giudice delegato.


2.2. La scelta dell’affittuario

Sulla base di procedure competitive che garantiscano la trasparenza e le necessarie forme di pubblicità, la scelta dell’affittuario rappresenta, quindi, un atto del curatore e il provvedimento autorizzatorio del giudice delegato né è una mera presa d’atto. Di conseguenza, l’offerente che voglia impugnare la decisione del fallimento di stipulare l’affitto con un altro offerente ha l’onere di reclamare l’atto del curatore ex art. 36 e non il decreto del giudice ex art. 26 L. Fall. [25]. La scelta del contraente, che dovrà essere condotta non solo alla luce dell’inte­resse dei creditori al massimo realizzo, avviene all’esito di una procedura competitiva, che dovrebbe evidenziare a priori gli elementi in base ai quali intende scegliere l’affittuario. All’uopo, appare necessario, o quantomeno opportuno, depositare presso la cancelleria fallimentare la struttura dello stipulando contratto, richiedere agli interessati di competere sulla base di clausole essenziali predeterminate e consentire agli stessi l’accesso all’azienda, in modo da permettere loro di ottenere le informazioni necessarie a valutare concretamente l’economicità dell’operazione. Il curatore potrà arginare il rischio di compromissione del valore del complesso aziendale, che consegue alla diffusione di tali informazioni, vincolando i potenziali contraenti a specifici accordi di riservatezza, che prevedranno penali nel caso in cui alcune individuate notizie riservate siano in seguito diffuse o utilizzate da parte dei stessi soggetti o per fatto del terzo, ex art. 1381 c.c. [26]. Nell’ipotesi di dissenso alla stipula è prevista, come anticipato, la possibilità di richiedere l’intervento del Tribunale in sede di reclamo, a norma dell’art. 36 L. Fall., per contrastare le decisioni del curatore o del comitato dei creditori, ovvero a norma dell’art. 26 L. Fall., per impugnare il rifiuto del giudice delegato. Rilevante è la possibilità per gli organi della procedura fallimentare, in specifiche occasioni, di ritenere che un contratto d’affitto stipulato prima della dichiarazione di insolvenza possa essere proseguito, in modo da evitare la cessazione dell’attività e la dispersione dei valori aziendali, eventualmente apportando modifiche che lo [continua ..]


2.3. Il contratto d’affitto

Il contratto d’affitto dovrà essere stipulato dal curatore nelle forme di legge e, anche in sede fallimentare, resta regolato dalle disposizioni di diritto comune. Nel contratto è necessario individuare e descrivere il compendio aziendale oggetto dell’affitto, così come indicare analiticamente i contratti in cui l’affittuario dovrà subentrare. Sul punto si osserva che, in tema di locazione di immobili non adibiti ad uso abitativo, a norma dell’art. 36, L. n. 392/1978, l’affitto di azienda relativo ad attività svolta in un immobile condotto in locazione non produce l’automatica successione dell’affittuario nel contratto di locazione dell’immobile, quale effetto necessario del trasferimento dell’azienda, in quanto la successione è soltanto eventuale e richiede comunque la conclusione, tra concedente ed affittuario dell’azienda, di un apposito negozio volto a porre in essere la sublocazione o la cessione del contratto di locazione. In quest’ultima ipotesi non è necessario il consenso del locatore, in deroga all’art. 1594 c.c., ma è fatta salva comunque la facoltà di quest’ultimo di proporre opposizione per gravi motivi, entro trenta giorni dall’avvenuta comunicazione della cessione del contratto di locazione, insieme all’azienda, proveniente dal conduttore [29].


2.4. Il contenuto del contratto

Il regolamento contrattuale deve, altresì, stabilire l’ammontare del canone e prevedere una durata, che risulta naturaliter contenuta nei limiti della procedura concorsuale, con la conseguenza che non sopravvive alla vendita fallimentare e non è opponibile all’acquirente inexecutivis. La normativa generale sull’affitto d’azienda ex art. 2562 c.c. prevede determinati obblighi per l’affittuario, in buona parte derogabili dalle parti, soprattutto in relazione all’uso dei segni distintivi dell’impresa e al rapporto concorrenziale tra le parti [30]. Si ritiene che il contratto di affitto si componga, oltre che di elementi tipici, propri di ogni contratto, e di clausole legali necessarie di cui all’art. 104-bis L. Fall., anche di clausole non legali e non necessarie. In particolare, il legislatore ha previsto un contenuto minimo e inderogabile (specificamente previsto all’art. 104-bis, 3° comma, L. Fall.) del contratto, la cui violazione determina una nullità parziale dello stesso ex art. 1419 c.c. e la sostituzione e/o inserimento delle clausole pretermesse, a mente dell’art. 1339 c.c. Invece, in ordine al contenuto facoltativo del contratto, l’autonomia delle parti può estendersi, salvo le clausole incompatibili con le esigenze della procedura (es., il patto di inalienabilità del compendio) e quelle che comprometterebbero le istanze liquidatorie del fallimento e violerebbero il meccanismo previsto dall’art. 107 L. Fall. per la scelta dell’acquirente [31]. Altra clausola da inserire, non contemplata nel contenuto minimo obbligatorio disposto dal legislatore, è quella dello scioglimento del contratto di affitto in caso di revoca del fallimento o di vendita, al fine di evitare che, rispettivamente, l’impren­ditore tornato in bonis o l’acquirente si trovino impossibilitati a disporre della propria azienda [32]. In relazione alle condizioni liberamente determinabili dalle parti, assume rilievo l’opportunità dell’inserimento di una clausola che preveda il diritto dell’affittuario ad essere rimborsato di tutti i miglioramenti apportati e dei costi sostenuti per investimenti produttivi durante il periodo di affitto [33].


2.5. Gli effetti del contratto

L’affittuario ha il diritto-dovere di esercitare l’azienda con la ditta che la contraddistingue e senza modificarne la destinazione. Inoltre, sull’affittuario grava il di­vieto di concorrenza ex art. 2557 c.c., il quale comporta che, per tutta la durata del contratto, è precluso iniziare una nuova impresa idonea a sviare la clientela dell’a­zienda ceduta. Poiché la violazione di tale divieto non richiede un danno effettivo o un’effettiva concorrenza, essendo sufficiente un danno potenziale per conseguire la risoluzione del contratto o l’inibitoria, l’accertamento di tale violazione non è correlato necessariamente alla verificazione concreta del danno, il quale, comunque, se accertato, dà luogo alla condanna al risarcimento dell’autore di esso [34]. L’affittuario dispone, inoltre, di quei beni aziendali che si consumano e/o sono soggetti a trasformazione durante il processo produttivo e nelle singole operazioni commerciali, con il correlato dovere di provvedere alla loro rinnovazione e di regolare in denaro la differenza fra le consistenze dell’inventario all’inizio ed al termine del rapporto, che coincide con la data di cessazione del contratto di affitto e non con quella di effettivo rilascio dell’azienda [35].


2.6. I rapporti giuridici pendenti, i debiti e i crediti

L’affitto d’azienda comporta, ex art. 2558 c.c., la trasmissione di tutti i rapporti contrattuali non aventi carattere personale, ma d’impresa [36]. Ai fini della valutazione della personalità del rapporto contrattuale, si deve avere riguardo alla posizione dell’affittuario, il quale non deve essere legato da scelte personali del cedente (recte, concedente), che egli può non condividere [37]. Sono trasferibili i contratti che non abbiano ancora avuto integrale esecuzione da entrambe le parti, atteso che quelli che hanno avuto una integrale esecuzione anche soltanto da una delle parti rilevano soltanto per le obbligazioni non ancora eseguite [38]. Al contrario, sono estranei al trasferimento i contratti che si sono sciolti per effetto del fallimento, o dai quali il curatore abbia ritenuto di sciogliersi ovvero che convenzionalmente le parti abbiano deciso di escludere. Inoltre, di regola, sono oggetto di affitto anche quei vincoli negoziali in relazione ai quali il curatore abbia dichiarato di voler subentrare prima della stipulazione del contratto di affitto d’azienda. Per i contratti, invece, in relazione ai quali, al momento della stipulazione, non vi sia stata ancora una precisa manifestazione di volontà da parte della procedura, si verificherà il subentro automatico dell’affittuario nel caso in cui gli stessi siano essenziali per l’esercizio di impresa, mentre per gli altri si rimarrà in attesa delle scelte operate dagli organi fallimentari. I contratti che ab origine contengono clausole di intrasferibilità dei rapporti proseguono comunque nell’affitto, in virtù del principio del mantenimento della unitarietà dell’azienda; si realizza, così, una ipotesi di subentro ex lege [39].


2.7. La retrocessione al fallimento

Il fenomeno della retrocessione dell’azienda nelle mani della procedura si può verificare nei casi di naturale scadenza del contratto o di risoluzione dello stesso. L’art. 104-bis L. Fall. espressamente tiene immune la procedura dalle responsabilità per i debiti maturati dall’affittuario sino alla retrocessione, in deroga agli artt. 2112 e 2560 c.c., così che il fallimento non sarà in alcun modo gravato dai debiti derivanti dalla gestione dell’affittuario. Avuto riguardo ai contratti, la disciplina prevede che il fallimento possa decidere se subentrare o meno in quelli pendenti (id est, anche in quelli sorti nel corso del­l’affitto): il curatore gestirà i rapporti giuridici pendenti dopo la retrocessione ai sensi degli artt. 72 ss. L. Fall., senza distinzione tra i contratti (precedenti) nei quali l’af­fittuario è subentrato e quelli conclusi dallo stesso. In relazione ai contratti preesistenti alla dichiarazione di fallimento, oggetto di concessione in affitto, e per i quali, dunque, gli organi della procedura abbiano già manifestato la decisione di continuare il rapporto ex art. 72 L. Fall., il curatore ha il potere di scelta tra il subentrare o meno e, laddove la procedura optasse per la seconda soluzione, non dovrebbe operare lo scioglimento del rapporto, ma opererebbe la prosecuzione del rapporto in capo al precedente affittuario. Con riferimento ai contratti di lavoro posti in essere durante il periodo di affitto, essi vengono a trovarsi in uno stato di quiescenza, ricordando che la cessazione del rapporto di lavoro non deriva automaticamente dal fallimento dell’imprenditore, ma può aversi o per effetto del licenziamento operato dal curatore, che, verificata l’im­possibilità di adibire il lavoratore a qualsivoglia ulteriore mansione, irrogherà, per iscritto e con preavviso, il licenziamento individuale [40], ovvero a causa della dissoluzione della realtà aziendale, la quale, a sua volta, non si riconnette necessariamente alla mancata continuazione temporanea dell’esercizio dell’impresa, ben potendo il bene giuridico azienda sopravvivere alla mera cessazione dell’attività per un periodo più o meno lungo [41].


2.8. Il diritto di prelazione e il suo esercizio

Previa espressa autorizzazione del giudice delegato e a seguito di parere favorevole del comitato dei creditori, può essere concesso convenzionalmente all’affittua­rio il diritto di prelazione: la legittimazione all’esercizio del diritto de quo non può sopravvivere alla caducazione del rapporto di affitto [42]. L’art. 104-bis, 5° comma, L. Fall. stabilisce che l’autorizzazione alla stipula dell’affitto non riguarda anche la concessione della prelazione, che deve essere oggetto di espressa menzione, pur contenuta nel medesimo provvedimento, senza necessità di un atto separato e distinto [43]. La prelazione convenzionale può convivere con quella legale accordata dall’art. 3, L. n. 223/1991, che concede all’imprenditore, il quale a titolo di affitto abbia assunto la gestione anche parziale di aziende appartenenti ad imprese assoggettate a procedure concorsuali, il diritto di prelazione nell’acquisto delle medesime. L’introduzione dell’istituto della prelazione convenzionale – che, prima della riforma, era considerata non ammissibile dalla giurisprudenza, stante la generale incompatibilità del diritto di prelazione con le vendite coattive [44] –, trova la sua giustificazione nell’esigenza di incentivare l’affittuario alla conclusione del contratto e di stimolarlo il più possibile a valorizzare l’azienda affittata. La denuntiatio all’affittuario-prelazionario da parte del curatore può essere com­piuta solo dopo la presentazione di offerte da parte dei potenziali acquirenti e l’indi­viduazione di quella migliore; essa ha natura di atto di interpello non negoziale, anche se presenta oggettivamente il contenuto di una proposta con l’indicazione delle condizioni del trasferimento e costituisce al tempo stesso, in quanto atto dovuto, og­getto di uno specifico obbligo legale [45]. Pertanto, l’adesione del titolare del diritto di prelazione non costituisce accettazione di una proposta produttiva di effetti traslativi, né l’esercizio di un diritto potestativo. L’affittuario ha un termine di cinque giorni dalla comunicazione per esercitare il suo diritto di prelazione, mediante la presentazione di una dichiarazione contenente l’indicazione del prezzo, del tempo e delle modalità di pagamento come [continua ..]


2.9. I rapporti di lavoro

Con riferimento ai rapporti di lavoro, nel caso di affitto di azienda l’art. 2112 c.c. stabilisce che il rapporto continua con il cessionario e il lavoratore conserva tutti i diritti di cui godeva presso il cedente. L’applicazione dell’art. 2112 c.c. ai rapporti di lavoro, se da un lato favorisce il mantenimento della forza occupazionale, dall’altro ostacola il trasferimento dell’a­zienda stessa, soprattutto in caso di procedure concorsuali. Proprio al fine di agevolare la circolazione dell’azienda e la conservazione della stessa in sede fallimentare, l’art. 47, L. n. 428/1990 prevede che, nel caso di fallimento, sono disapplicate le tutele di cui all’art. 2112 c.c. per le aziende che abbiano i requisiti dimensionali per accedere alla Cassa Integrazione Guadagni Straordinaria e che abbiano stipulato un accordo collettivo con le rappresentanze sindacali che consenta il mantenimento anche parziale dei livelli occupazionali. Diversamente, per le imprese che non hanno i predetti requisiti dimensionali, sussiste la responsabilità solidale dell’affittuario per i debiti di lavoro del (con)cedente anteriori al trasferimento, a meno che il cedente non sia liberato dal lavoratore per tali debiti con le procedure di conciliazione ex artt. 410 e 411 c.p.c.


3. La vendita dell’azienda

Nel programma di liquidazione dell’attivo, il curatore deve dare specificamente conto della possibilità di cessione unitaria dell’azienda, di singoli rami, di beni o rap­porti giuridici [46]. Il curatore, nel rispetto del principio del massimo realizzo, indica le modalità di cessione che reputa più convenienti, privilegiando la liquidazione atomistica dei beni solo quando si possa presumere un realizzo economico maggiore rispetto a quello ricavabile dalla vendita in blocco dei beni aziendali o dalla vendita dell’azienda nel suo complesso (quest’ultima tesa a garantire la continuità aziendale), contemperando anche l’interesse del ceto creditorio, cui si deve assicurare la maggiore soddisfazione possibile in sede di riparto. Dal punto di vista pratico, il confine tra la vendita di singoli beni e il trasferimento di ramo di azienda è talvolta estremamente sottile. Nella cessione di ramo di azienda, a differenza di quanto avviene in caso di vendita atomistica dei singoli cespiti aziendali, viene maggiormente in rilievo il vincolo organizzativo e funzionale tra i beni oggetto del trasferimento. Rilevante è il profilo della stima dei beni facenti parte dell’attivo fallimentare: di regola, i curatori e, per essi, gli esperti stimatori valutano le aziende, nell’ambito delle procedure concorsuali, facendo riferimento non soltanto alle consistenze patrimoniali, ma anche alle intrinseche (anche se negative) prospettive reddituali future. È opportuno, in proposito, ricordare che, nell’ambito dell’amministrazione stra­ordinaria delle grandi imprese insolventi, la valutazione dei complessi aziendali oggetto di cessione si effettua alla stregua delle inderogabili disposizioni contenute negli artt. 62 e 63, D.Lgs. n. 270/1999, aventi carattere imperativo, tanto più che l’art. 11, 3°-quinquies comma, D.L. n. 145/2013, convertito, con modificazioni, dalla L. n. 9/2014, di interpretazione autentica del menzionato art. 63, ha inteso chiarire che il prezzo di cessione dell’azienda non deriva dal suo valore di stima – la cui eventuale erroneità non ha, dunque, carattere decisivo –, bensì da quello attribuito al bene dal mercato, determinato in ragione dell’interesse manifestato dai suoi potenziali acquirenti e dalle loro offerte del prezzo [47]. Di cessione di azienda si [continua ..]


3.1. La forma della cessione d’azienda

Per il contratto di cessione d’azienda, la legge prescrive la forma scritta solo ad probationem, facendo salva l’osservanza delle disposizioni normative per il trasferimento di singoli beni che compongono l’azienda ovvero per la particolare natura del contratto. Esso, pertanto, ben potrà essere redatto per atto pubblico ovvero per scrittura privata autenticata e dovrà, in ogni caso, essere depositato per l’iscrizione presso il registro delle imprese nel termine di trenta giorni dalla stipula, a pena di inopponibilità ai terzi e conseguente responsabilità del fallimento per le obbligazioni contratte dal cessionario [49]. La previsione della forma scritta ad probationem di negozi che hanno ad oggetto il trasferimento della proprietà o del godimento dell’azienda concerne esclusivamente i rapporti fra cedente e cessionario, fra i quali è incorsa la relativa convenzione, mentre di questa i terzi ad essa estranei sono abilitati a fornire la prova senza soggiacere alla suddetta limitazione [50]. Da ciò deriva che i terzi possono fornire la prova dell’intervenuto trasferimento dell’azienda anche con testimonianze e presunzioni [51]. La Suprema Corte ha chiarito che il complesso di beni costituito in azienda costituisce una tipica universalità di beni ai sensi dell’art. 816 c.c., per la quale non può trovare applicazione il principio dell’acquisto immediato in virtù del possesso ai sensi dell’art. 1153 c.c., stante l’esplicita esclusione sancita dall’art. 1156 c.c. [52].


3.2. Le modalità di vendita

Il curatore può adottare tre distinte tipologie di procedure competitive: la vendita a trattativa privata; la vendita a procedure competitive semplificate; la procedura competitiva rigida. Per quanto concerne la vendita di singoli rami di azienda, va evidenziato che il requisito oggettivo dell’identità del ramo aziendale e dell’autonomia organizzativa e funzionale non deve necessariamente essere preesistente rispetto al trasferimento del ramo di azienda [53]. Nelle vendite coattive si tende a garantire l’acquirente solo in caso di vendita di aliud pro alio, che è configurabile quando il bene aggiudicato appartenga a un genere del tutto diverso da quello indicato nell’ordinanza di vendita, ovvero manchi delle qualità necessarie per assolvere la sua naturale funzione economico-sociale, ov­vero risulti compromessa la destinazione del bene all’uso che, preso in considerazione dalla succitata ordinanza, abbia costituito elemento determinante per l’offerta di acquisto [54]. Qualora l’azienda acquisita all’attivo fallimentare sia costituita anche da beni immobili, il legislatore ha riconosciuto al giudice delegato il potere di ordinare con decreto la cancellazione delle iscrizioni relative ai diritti di prelazione, nonché alle trascrizioni dei pignoramenti e dei sequestri conservativi e di ogni altro vincolo [55]. Nell’ambito della vendita di un’azienda, l’organo di gestione della procedura, fi­no a quando la vendita non si è perfezionata con il versamento integrale del prezzo, ben può decidere di sospenderla, se perviene, anche dopo che il prelazionario abbia dichiarato di volersi avvalere della prelazione sul prezzo scaturito all’esito della gara competitiva, un’offerta irrevocabile d’acquisto migliorativa per un importo non inferiore al dieci per cento del prezzo offerto [56]. In siffatta ultima evenienza non sarà necessaria una nuova gara, ma il prelazionario dovrà essere posto in condizione di esercitare la prelazione sul nuovo prezzo.


3.3. La successione nei rapporti pendenti

L’art. 2558 c.c. prevede la successione ipso iure nei contratti stipulati per l’eser­cizio dell’azienda da parte dell’acquirente, salva diversa pattuizione, ad esclusione dei contratti aventi carattere personale. Al terzo contraente ceduto è concesso la facoltà di recedere dal contratto, per mutamento della controparte contrattuale, entro tre mesi dalla notizia del trasferimento e solo se sussiste una giusta causa. Come nel caso di affitto d’azienda, così anche nell’ipotesi di vendita, il fenomeno successorio distingue il caso dei contratti completamente eseguiti e di quelli in cui residuano prestazioni a carico di solo una delle parti, per i quali non si applica l’art. 2558 c.c. [57], dal caso dei contratti in corso, che contemplano prestazioni ancora da eseguire per entrambe le parti, per i quali è dubbia la possibilità di un subentro automatico ex art. 2558 c.c.


3.4. I contratti di lavoro dipendente

Per quanto attiene ai contratti di lavoro dipendente, posto che il trasferimento d’a­zienda non costituisce di per sé motivo di licenziamento, nell’ipotesi di mancata disdetta in tempo utile da parte della curatela [58], opera la regola dell’art. 2112 c.c., che disciplina la continuità dei rapporti di lavoro in corso con l’azienda ceduta [59]. L’art. 105, 3° comma, L. Fall. contempla un’eccezione a questa regola, al ricorrere di determinate condizioni disciplinate dall’art. 47, 5° comma, L. 29 dicembre 1990, n. 428. Quest’ultimo, ritenuto necessario il presupposto della cessazione del­l’attività aziendale [60], prevede che, nell’ambito di consultazioni sindacali finalizzate ad informare i lavoratori dei motivi del trasferimento, sia possibile, in occasione del trasferimento di imprese sottoposte a procedure concorsuali, stipulare un accordo di trasferimento anche solo parziale dei lavoratori alle dipendenze dell’acquirente. In siffatta evenienza, inoltre, per i lavoratori, il cui rapporto continui con il cessionario, non trova applicazione l’art. 2112 c.c. con la sua disciplina estremamente garantista [61]. Stante la formulazione dell’art. 105, 3° comma, L. Fall., esso non risolve il dubbio se, nel caso di imprese trasferite con meno di 15 dipendenti, continui ad applicarsi la regola contenuta nell’art. 2112 c.c. o possa estendersi loro il 4° comma dello stesso art. 105 L. Fall. (che tendenzialmente esonera l’acquirente dalla responsabilità per il pagamento dei debiti aziendali sorti prima del trasferimento). La responsabilità del cessionario per i debiti che derivano dal rapporto di lavoro non si estende a quelli contributivi nei confronti degli enti previdenziali, in quanto per tali debiti non può operare l’art. 2112, 2° comma, c.c. Invero, la solidarietà del cessionario è limitata ai soli crediti di lavoro del dipendente e non riguarda, quindi, i crediti dell’ente previdenziale, che è soggetto terzo. Per i rapporti in corso al momento del trasferimento, il cessionario risponde del TFR ed è unico debitore anche per le obbligazioni relative al periodo pregresso in cui il lavoratore era alle dipendenze del cedente, atteso che solo al momento dello scioglimento del rapporto di lavoro matura il diritto del lavoratore al [continua ..]


3.5. I debiti sorti prima del trasferimento

Il 4° comma dell’art. 105 L. Fall. esclude la responsabilità dell’acquirente per i debiti relativi all’esercizio dell’azienda ceduta sorti prima del trasferimento (pur se iscritti nelle scritture contabili della fallita), salvo diversa determinazione convenzionale delle parti. Possono essere ceduti i debiti del fallimento, i cui relativi creditori siano già stati ammessi al passivo e che troverebbero collocazione sull’attivo fallimentare, perché, altrimenti, attraverso la cessione si attuerebbe una palese violazione della par condicio creditorum (e, in particolare, dei diritti vantati dai creditori di grado anteriore). I debiti relativi a passività assistite da garanzie reali o privilegi soggetti ad iscrizione, gravanti su beni di proprietà del fallimento, possono essere ceduti soltanto trasferendo anche i beni oggetto della garanzia reale o del privilegio iscritto in favore del­l’acquirente. Nel contemplare la cedibilità all’acquirente dell’azienda anche delle passività a­ziendali, l’art. 105, ultimo comma predispone che il pagamento del prezzo possa essere effettuato mediante accollo dei debiti da parte dell’acquirente solo se non viene alterata la graduazione dei crediti.


3.5.1. La sorte dei crediti

La giurisprudenza, aderendo alla concezione dell’azienda come universalità di beni, diritti, crediti e debiti, è concorde nel ritenere che la cessione d’azienda comporti anche il trasferimento dei crediti ad essa inerenti, salva contraria volontà manifestata dalle parti del contratto di cessione. La buona fede del debitore ceduto che abbia, nonostante la cessione, pagato al fallimento determinerà la liberazione dall’obbligazione, non essendo il trasferimento a lui opponibile, ma l’efficacia liberatoria riguarderà soltanto i rapporti tra cessionario e terzo e, quindi, il fallimento sarà tenuto (essendo il credito già stato oggetto di cessione regolarmente resa nota) alla restituzione al cessionario di quanto incassato. In particolare, l’azione di quest’ultimo nei confronti della procedura per il recupero di quanto indebitamente percepito comporta l’insinuazione al passivo del relativo cre­dito, coerentemente con i principi sanciti nell’attuale disciplina (art. 111-bis, 1° com­ma, L. Fall.), secondo cui anche i crediti prededucibili debbono essere oggetto d’in­sinuazione al passivo. Pertanto, qualora sorgano contestazioni sulla collocazione e sull’ammontare del credito restitutorio invocato e, dunque, si crei un contrasto tra cu­ratore e cessionario, quest’ultimo sarà tenuto a presentare una domanda tardiva di am­missione. In applicazione del principio generale dell’art. 1263, 1° comma, c.c., per effetto della cessione, il credito è trasferito al cessionario con i privilegi, con le garanzie personali e reali e con gli altri accessori. In ordine al passaggio dei privilegi, è saldo il risalente principio [63] per il quale, con il perfezionamento del negozio di cessione, il cessionario è legittimato, in via esclusiva, all’esercizio di tutte le azioni dirette a ottenere la realizzazione del credito [64].


4. Il conferimento d’azienda

Tra le molteplici modalità dismissive contemplate dall’art. 105 L. Fall. si distingue, per la sua intrinseca peculiarità, il conferimento d’azienda, quale operazione so­cietaria, che, ispirata dall’intento di conseguire un effetto segregativo del patrimonio dell’imprenditore insolvente, offre un ulteriore strumento volto a consentire la prosecuzione dell’attività di impresa. Il conferimento dell’azienda nella “società veicolo” rappresenta una soluzione che potrebbe presentarsi particolarmente vantaggiosa ai fini della liquidazione falli­mentare: le azioni (o quote) della società conferitaria potrebbero incontrare il gradimento di una più ampia platea di soggetti interessati all’acquisizione; tanto senza voler considerare la possibilità che le partecipazioni stesse (in tutto o in parte) potrebbero essere destinate (e/o offerte in sottoscrizione) agli stessi creditori sociali [65]. Al fine di agevolare la liquidazione, il legislatore ha previsto che, in caso di conferimento di azienda, è esclusa la responsabilità dell’alienante ai sensi dell’art. 2560 c.c., onde sarà rimessa alla prudente, diversa convenzione tra le parti la determinazione della misura dell’eventuale accollo di debiti a carico della società conferitaria. A ciò si aggiunga che, salva diversa convenzione intercorsa tra le parti contraenti, è esclusa altresì la responsabilità dell’acquirente per i debiti relativi all’esercizio dell’azienda ceduta sorti prima del trasferimento. La Suprema Corte ha chiarito che il divieto quinquennale di concorrenza stabilito dalla norma di cui all’art. 2557 c.c. per l’ipotesi di alienazione di azienda non riveste carattere di specialità o eccezionalità [66]. Pertanto, la menzionata disposizione è applicabile in via analogica a tutti i casi in cui, per la realizzazione degli effetti economici del negozio di trasferimento, sia necessario che una delle parti si astenga dal fare concorrenza all’altra per non vanificare la ragione dell’acquisto. Invero, il fallito, iniziando un’attività concorrenziale, potrebbe vanificare il valore intrinseco (vale a dire, la redditività patrimoniale) dell’azienda [67].


NOTE