Il Diritto Fallimentare e delle Società CommercialiISSN 0391-5239 / EISSN 2704-8055
G. Giappichelli Editore

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Diritti soggettivi senza sovranità (a proposito di bail-in, cram-down e altro) (di Giuseppe Terranova (Professore di Diritto commerciale nell’Università di Roma "La Sapienza"))


L’A. si chiede se il credito possa essere ancora considerato come un diritto soggettivo. Il dub­bio sorge perché le nuove discipline per la soluzione delle crisi d’impresa tutelano interessi anche diversi e in parte contrapposti a quelli dei creditori, per arrivare, in alcuni casi, a “espropriare” il ti­tolare della pretesa d’alcuni tradizionali poteri: si pensi al “cram down” nel concordato e al “bail in” per le banche.

La questione viene affrontata facendo riferimento, da un lato, agli schemi utilizzati da Hohfeld per de­scrivere le situazioni soggettive, e, dall’altro lato, al concetto sociologico di “aspettativa di tutela”. Il primo strumento, debitamente aggiornato, permette di descrivere la struttura del rapporto obbligatorio come un grappolo di poteri/soggezioni/immunità: grappolo, variamente conformato nelle varie epo­che e nei diversi ordinamenti. Il secondo strumento consente di porre dei limiti funzionali (anch’essi storicamente mutevoli) al potere del legislatore di conformare il diritto soggettivo, giacché impone di rispettare (come affermano molte Corti Supreme, a partire da quella di Strasburgo) i principi di proporzionalità e di ragionevolezza, per assicurare ai creditori un risultato apprezzabile sul piano patrimoniale. In altri termini, anche il credito, al pari della proprietà, avrebbe un nucleo duro, che non potrebbe essere inciso da provvedimenti ablativi.

Su queste basi, nel saggio vengono esaminati alcuni problemi di scottante attualità, come: l’obbli­go d’apporti esterni nel concordato, l’azzeramento delle partecipazioni sociali, il trasferimento di ri­sorse nei concordati di gruppo, il trattamento concordatario dei creditori muniti di garanzie su patrimoni altrui, l’insinuazione al passivo del credito da compensare, e altri quesiti di dettaglio.

In this article, the author investigates whether credit rights may still be deemed to be subjective rights. The doubt arises as the most recent legal regimes for the settlement of business crisis protect consti­tuencies that are different from, and sometimes juxtaposed to, those of creditors, and sometimes get to “expropriating” claimants of some of their traditional powers: it is the case of cram-down in the “concordato” and bail-in for banks.

The subject is dealt with by making reference, on one hand, to the schemes adopted by Hohfeld for describing subjective situations and, on the other hand, to the sociological notion of “expectation of protection”. The first tool, duly updated, allows to describe the structure of the obligation as a cluster of power/awe/immunity. Such cluster is variously shaped in the different ages and legal systems. The second allows to introduce functional (and historically changing, too) limits to the legislative power to conform subjective rights, as it mandates the respect of general principles such as proportionality and reasonableness (as stated by many supreme courts, including Strasbourg one), in order to grant creditors an acceptable outcome from the economic standpoint. In other words, the credit right, not differently from ownership, would have a hard core that could not be subject to ablation.

On such basis, the essay examines some topical issues, like: the obligation to provide external resour­ces in case of business restructuring; the cancellation of shareholdings; the transfer of resources in the context of corporate group restructurings; the treatment of creditors with securities on third parties’ assets; the set-off of claims, and other detail issues.

SOMMARIO:

1. Crediti e diritti soggettivi - 2. Le teorie patrimonialistiche dell'obbligazione - 3. Qualche rilievo critico - 4. I diritti soggettivi e l'articolazione delle forme di tutela - 5. Un ritorno ai "concetti fondamentali" di Hohfeld - 6. L'obbligo tra libertà e soggezione - 7. Il residuo ruolo della sanzione - 8. Il profilo strutturale del diritto: un grappolo di poteri - 9. Il profilo funzionale: la tutela d'interessi - 10. I mutamenti intervenuti nella struttura del rapporto obbligatorio - 11. Il ruolo del patrimonio come garanzia dell'obbligazione - 12. Le nuove forme di tutela dei crediti - 13. I crediti sono diventati interessi legittimi? - 14. Ragionevolezza e proporzionalità degli interventi autoritativi - 15. Gli apporti esterni nel concordato - 16. Una proposta conciliativa - 17. Apporti esterni nel concordato con cessione dei beni? - 18. L'azzeramento delle partecipazioni sociali - 19. Concordati e autonomia privata - 20. Il trasferimento di risorse nei gruppi - 21. I creditori muniti di garanzie su patrimoni altrui - 22. L'insinuazione al passivo del credito da compensare - 23. La funzione di garanzia della compensazione - 24. Per una cultura dei diritti patrimoniali fondati su principi di giustizia


1. Crediti e diritti soggettivi

La pretesa del creditore nei confronti del debitore può essere qualificata come un diritto soggettivo? Il dubbio è sempre esistito, perché il rapporto obbligatorio si reg­ge sulla collaborazione dell’obbligato ed è difficile ammettere – soprattutto da quan­do si è raggiunto un certo grado di consapevolezza morale – che si possa esercitare un diritto su una persona. In maniera molto significativa Savigny (il teorico del diritto soggettivo come “signoria della volontà”) s’affrettava a precisare, infatti, che la pretesa del creditore non ha ad oggetto la “persona” del debitore, bensì un suo atto (o un’attività, potremmo aggiungere noi, senza modificare il concetto), il cui compimento viene imposto facendo ricorso ad adeguati strumenti sanzionatori. L’idea che i diritti soggettivi, soprattutto quelli di natura patrimoniale, riproducessero in sedicesimi la struttura di un potere sovrano, veniva così confermata, ma al costo di una notevole distorsione della realtà, giacché la volontà del debitore non può essere conculcata più di tanto (nemo ad factum precise cogi potest), e quindi vi è, per forza di cose, una notevole differenza tra ciò che il creditore s’aspetta d’otte­nere (l’esatto adempimento della pretesa) e il risultato che l’ordinamento gli può garantire. Tale differenza era macroscopica nei sistemi giuridici primitivi (si pensi, con riferimento al diritto romano delle origini, allo squartamento del debitore o alla sua vendita come schiavo trans Tiberim); divenne sempre più tenue con la bonorum venditio e poi con la bonorum distractio, ma non è mai del tutto scomparsa – almeno sul piano empirico – perché una cosa è ricevere la collaborazione piena e spontanea dell’obbligato; altra cosa è partecipare, in concorso con altri creditori, alla spartizione delle somme ricavate dalla vendita coattiva dei suoi beni. Adesso si è aggiunto un nuovo capitolo, perché sono sempre più frequenti le ipotesi nelle quali s’impongono sacrifici ai creditori (fino ad annullare le loro pretese) senza il concorso della loro volontà, talvolta senza neppure consultarli. Questa constatazione suggerisce un riesame del problema. Lo [continua ..]


2. Le teorie patrimonialistiche dell'obbligazione

I problemi della struttura del rapporto obbligatorio e del suo inquadramento nel sistema del diritto privato sono stati al centro del dibattito dottrinale per tutto l’Otto­cento e per la prima metà del Novecento. A parte qualche voce critica (mi limito a ricordare quella di Domenico Barbero, secondo il quale il diritto soggettivo consiste­rebbe in un agere licere, mentre il credito sarebbe solo un’aspettativa giuridicamente tutelata), la dottrina di gran lunga prevalente ha cercato di superare l’ostacolo che si frapponeva alla possibilità di qualificare anche il credito come una “signoria” su un bene, attraverso le cosiddette concezioni patrimonialistiche dell’obbligazione, che proiettavano la pretesa del creditore direttamente nel patrimonio del debitore, in quanto assoggettabile alle azioni esecutive, di carattere individuale o collettivo. Su questo piano, una delle tesi più innovative rispetto alle concezioni precedenti è stata quella elaborata da Gustavo Bonelli, secondo la quale il rapporto, di cui stia­mo parlando, non correrebbe tra due persone – il creditore e il debitore – bensì tra due patrimoni: quello del titolare della pretesa, da un lato; quello dell’obbligato, dall’al­tro. In realtà, però, tutto il periodo a cavallo tra i due secoli dianzi ricordati è stato un fiorire di teorie sempre più raffinate, che attribuivano (sulla scorta delle coeve, o di poco anteriori, dottrine tedesche) un ruolo sempre più centrale, nella struttura del rapporto, alla responsabilità patrimoniale, e poi all’azione esecutiva, con la quale il creditore sarebbe riuscito ad ottenere la prestazione dovuta. Al riguardo, i nomi di grandi Maestri da citare sarebbero numerosi: Cicu, Ganci, Pacchioni, Carnelutti, e tanti altri. Sul versante commercialistico mi limito a ricordare Alfredo Rocco, secondo il quale i creditori avrebbero una sorta di pegno collettivo (la “gage commune” dell’ordinamento francese) sui beni del debitore considerati in maniera unitaria, come un’universitas. Il patrimonio dell’obbligato resterebbe nella sua piena disponibilità solo fino a quando è sufficiente a coprire l’importo dei debiti, mentre si cristallizzerebbe, soggiacendo a un vincolo di destinazione in favore dei creditori, non appena [continua ..]


3. Qualche rilievo critico

Come si vede, la dottrina italiana ha compiuto ogni sforzo per attribuire al rapporto obbligatorio una struttura in qualche modo confrontabile con una certa idea di diritto soggettivo, che vorrebbe attribuire al titolare – ad instar dei diritti reali – una sovranità su un determinato bene, o su una specifica sfera patrimoniale. Sul piano intellettuale la complessità e la varietà delle soluzioni escogitate lasciano francamente ammirati. Sul piano tecnico, tuttavia, sorge qualche dubbio in merito alla possibilità di creare un parallelismo così stretto con i diritti reali, senza impingere in difficoltà d’inquadramento sistematico davvero insuperabili. A) A distanza di più di un secolo, la ricostruzione che cela meglio i segni del tem­po è proprio quella del Bonelli: certo, un così drastico ridimensionamento dei profili personalistici dei rapporti obbligatori potrebbe lasciare perplessi (basti pensare al contratto di lavoro subordinato), ma resta il fatto che le tesi del B. costituiscono uno spartiacque nella nostra cultura giuridica. Esse, infatti, miravano a eliminare ogni a­spetto sanzionatorio del fallimento, e, sebbene tale processo evolutivo non si sia ancora pienamente compiuto, trova lì una prima elaborazione sistematica. In realtà, l’arresto per debiti era stato già soppresso nel 1877, e cioè negli anni della formazione dell’illustre Maestro. Ma il B. si era dato obiettivi molto più ambiziosi: intendeva sconfiggere la cultura del sospetto nei confronti del debitore inadem­piente, sintetizzata nell’espressione “decoctor ergo fraudator”; voleva far capire che il fallimento, in un’economia moderna, può essere provocato da cause obbiettive di mercato, e che il fallito, di conseguenza, non sempre può essere considerato alla stre­gua di un delinquente. Naturalmente, il B. era ancora lontano dall’idea che le procedure concorsuali servissero a offrire una seconda chance al soggetto sovra-indebi­tato, per reinserirlo al più presto possibile nel tessuto economico come fonte di produzione di reddito. Nelle sue pagine, tuttavia, era evidente lo sforzo di concentrarsi sui profili patrimoniali dei problemi aperti dall’insolvenza, relegando in secondo pia­no quelli di carattere [continua ..]


4. I diritti soggettivi e l'articolazione delle forme di tutela

Se quanto precede è vero, si deve riconoscere che le teorie patrimonialistiche dell’obbligazione non sono riuscite a colmare lo iato tra la struttura dei diritti reali e quella dei rapporti obbligatori. Questi ultimi non consentono d’esercitare un potere immediato su un bene o su un complesso di beni (il patrimonio del debitore considerato sub specie della garanzia patrimoniale generica), ma richiedono nella fase at­tuativa – qualora manchi la collaborazione del debitore – il ricorso a strumenti indiretti di tutela. Qui entra in gioco l’azione esecutiva, la quale, però, poiché si svolge in un processo con una potenziale pluralità di parti, impone un confronto tra l’inte­resse del creditore e una variegata seria di altre istanze (del debitore, dei creditori, dei lavoratori occupati nell’impresa, di alcune comunità d’utenti, e via dicendo) di natura individuale o collettiva. Questa banale costatazione – che ovviamente non è sfuggita ai più sensibili cultori del diritto civile – ha molte implicazioni sistematiche, sulle quali occorre riflettere. Innanzi tutto, richiama l’attenzione sul fatto che le entità chiamate “diritti soggettivi” non hanno sempre la stessa struttura, ma possono avere conformazioni diverse. In secondo luogo, fa capire che uno degli elementi di differenziazione è costituito proprio dal tipo di tutela offerta al titolare, che può essere più o meno forte, a seconda degli strumenti messi a sua disposizione, e a seconda del vigore con cui vengono applicati. In conseguenza di ciò, lo sguardo deve volgersi al processo esecutivo, che però – come già si è detto – non ha il solo scopo di realizzare il diritto, ma è un luogo deputato a comporre aspettative di varia natura. In definitiva, proprio il fatto che i diritti patrimoniali si aprano a interessi diversi da quelli del titolare conferisce al sistema quel grado d’elasticità, che è indispensabile in una società articolata e complessa, come quella in cui viviamo.


5. Un ritorno ai "concetti fondamentali" di Hohfeld

L’esigenza di descrivere con maggiore accuratezza e rigore scientifico la struttura delle situazioni soggettive mi ha indotto, in altra sede, a riprendere le tesi di Hoh­feld, il quale ha suggerito d’inquadrare tutte le situazioni giuridiche elementari (i suoi “concetti fondamentali”) in due quadrilateri di opposti e di contrari (diritto, obbligo, privilegio, mancanza di diritto; potere, soggezione, immunità, mancanza di potere) per poter analizzare, su basi puramente logiche, tutte le situazioni soggettive co­nosciute da un determinato ordinamento. Questa tecnica è indispensabile nell’analisi comparatistica, giacché le forme di tutela apprestate dai vari sistemi giuridici sono notevolmente diverse l’una dall’altra e, quindi, è necessario attrezzarsi con strumenti concettuali più fini, per cogliere le differenze tra gli istituti messi a confronto. A ben guardare, però, i “concetti” di Hoh­feld sono utili anche nello studio del diritto interno: non solo perché fanno mettere a fuoco alcuni profili delle situazioni soggettive (specialmente se di carattere puramente negativo, come l’immunità e la carenza di potere), che sfuggono a un’indagine più grossolana; ma anche perché consentono d’individuare con maggiore precisione le trasformazioni che i “diritti” subiscono nella loro evoluzione storica. Dopo aver tributato a Hohfeld il giusto riconoscimento per l’importanza del suo contributo non si può, tuttavia, restare fermi sulle sue posizioni. La logica deontica, in questo secolo che ci separa dalle sue opere, ha fatto passi da gigante, ed è pure cambiato il modo in cui viene percepito il rapporto tra le analisi strutturali del diritto e quelle di carattere funzionale. Due strumenti di tutela formalmente identici (per­ché attribuiscono gli stessi poteri e le medesime immunità) possono operare in maniera completamente diversa, a seconda dell’ambiente, nel quale vengono applicati. Per conoscere un ordinamento non basta indagare sulle sue caratteristiche strutturali: occorre sapere come funzionano in pratica le cose; si devono conoscere i tempi dell’attività giudiziaria; è necessario valutare se certe aspettative di tutela non rischino di dissolversi, a causa di interpretazioni del sistema [continua ..]


6. L'obbligo tra libertà e soggezione

Per intendere fino in fondo il significato delle affermazioni che precedono, è opportuno partire da lontano. Il concetto di obbligo (e ancor più quello di obbligazione) richiama l’idea di una pressione esercitata sulla volontà di un soggetto per indurlo a fare, dare, omettere qualcosa: al riguardo, è ancora illuminante la definizione romana, secondo la quale «obligatio est iuris vinculum …», con quel che segue. Su queste basi Kelsen ha ritenuto che la predetta situazione soggettiva nasca dalla minaccia di una sanzione, e ha attribuito a tale elemento un ruolo fondamentale nella struttura dell’ordinamento: le norme primarie sarebbero quelle che prevedono la sanzione, mentre tutte le altre assolverebbero una funzione ancillare. La dottrina dominante, però, è andata di contrario avviso: sia perché vi sono norme che si limitano a imporre o a vietare qualcosa, senza specificare quali conseguenze potrebbero verificarsi qualora il precetto dovesse essere violato (le norme imperfectae dell’espe­rienza romana); sia perché, accanto agli imperativi, vi sono enunciati permissivi, nor­me costitutive, principi a fattispecie indeterminata, clausole generali, e via dicendo. A me pare che entrambe le tesi (quella di Kelsen e quella dei suoi oppositori) con­tengano qualche parte di vero. Tuttavia, per capire come stanno le cose, occorre affrontare il problema in una prospettiva più ampia. Il termine “obbligo” e i suoi derivati vengono utilizzati in quasi tutti i campi del­l’esperienza. Nella lingua di tutti i giorni questi lemmi sono usati anche per fare riferimento a regole d’esperienza che consigliano una certa condotta (ad esempio, si dice: «sono stato obbligato a letto da una brutta influenza»; oppure: «una frana mi ha obbligato a cambiare strada»; in entrambi i casi si vuole esprimere il concetto che sarebbe stato imprudente uscire con la febbre o attraversare la frana). Nel regno della morale, poi, vi sono molti doveri, la cui unica sanzione (se di sanzione si può parlare) è la cattiva coscienza o il biasimo da parte di altri consociati. Nel campo del diritto, infine, accanto a norme che prevedono con precisione quali conseguenze si verificano a carico del trasgressore, vi sono altre norme, nelle quali le conseguenze della [continua ..]


7. Il residuo ruolo della sanzione

A questo punto non è difficile trarre delle conclusioni. Kelsen aveva certamente torto quando voleva fare della sanzione (se intesa in senso tecnico) il perno attorno al quale far girare il concetto di obbligo o, addirittura, l’intero ordinamento giuridico. Aveva parzialmente ragione, quando segnalava (sulla scia di Max Weber) che la conoscibilità delle conseguenze connesse alla violazione della regola è un fattore di ci­viltà giuridica e di funzionalità del sistema. Su un piano più generale, tuttavia, si deve ammettere che la razionalità delle scelte giuridiche e la computabilità delle conseguenze delle proprie azioni sono obiettivi da perseguire per gradi e approssimazioni successive: in fondo anche la giustizia del cadì, pur essendo imprevedibile e poco ra­zionale, è un passo in avanti rispetto alle faide e alle vendette barbaricine. Tenendo conto di ciò, si può affermare che il vincolo creato dall’obbligo non si fonda necessariamente sulla piena conoscenza degli effetti collegati alla violazione del precetto. Nell’agire comunicativo è sufficiente molto meno: la pressione esercitata sull’obbligato può dipendere semplicemente dal fatto che costui avverte una disapprovazione, da parte della propria coscienza o da parte dei consociati. Il vincolo, che spinge a conformarsi alla regola, può dipendere dalla consapevolezza d’in­frangere l’ordine costituito, e più precisamente dal timore che, mettendolo in discus­sione, si inneschino processi dall’esito imprevedibile, forse anche distruttivo. Sempre nel campo dell’agire comunicativo, per la sussistenza di un obbligo non è necessario che gli effetti prodotti dall’inosservanza della regola siano certi nel­l’an, anche se indeterminati nel quomodo e nel quantum: per vero, possono essere solo eventuali. Se si tratta di una sanzione, l’individuazione del suo contenuto può essere lasciata all’arbitrio di un futuro decisore, chiamato a bilanciare principi – talvolta inespressi – per trarne indicazioni con riferimento al caso concreto. In questo quadro, l’obbligo è caratterizzato da due elementi: a) il primo è la libertà di scelta dell’obbligato; tale libertà può anche essere [continua ..]


8. Il profilo strutturale del diritto: un grappolo di poteri

I rilievi svolti nel precedente paragrafo trovano significative conferme nell’esa­me del rapporto obbligatorio. Qui, è evidente che ci troviamo in presenza di una situazione soggettiva complessa, costituita da poteri, soggezioni, immunità e mancan­ze di potere, secondo lo schema già analizzato. Creditore e debitore godono d’una certa libertà: il primo può decidere se e come disporre del credito; il secondo può scegliere se eseguire la prestazione o restare inattivo, esponendosi alle sanzioni previste per l’inadempimento. Tali libertà di scelta possono essere compresse in vario modo, ma in genere resta sempre uno spazio di manovra garantito da un’immunità. Se il debitore non paga, a suo carico si verificano certe conseguenze negative, previste dalla legge ma attivate per impulso del creditore. Costui, infatti, può: intimare l’adempimento per interrom­pere la prescrizione; costituire in mora il debitore; notificare il precetto e il titolo esecutivo; pignorare uno o più beni; chiedere che ne venga disposta la vendita forzata; partecipare al riparto; riscuotere le somme, o i crediti, che gli sono stati assegnati. Ognuno di tali atti costituisce l’esplicazione di un potere, al quale corrispondono, dal lato passivo, altrettante soggezioni. Il debitore inadempiente subisce una serie d’effetti che modificano la sua sfera patrimoniale, fino all’evento conclusivo, costituito dalla distribuzione delle somme ricavate dalla vendita forzata. Il rapporto obbligatorio appare, dunque, come un insieme di situazioni soggettive di base, legate tra loro da certi nessi funzionali e strutturate in sequenze più o meno complesse. A quest’ultimo riguardo, tuttavia, già in altra sede ho avuto modo di segnalare come l’esercizio di alcuni poteri non sempre si leghi al fattodal quale è nato il rapporto (e cioè, nel linguaggio del Codice, alla fonte dell’obbligazione), ma talvolta si radichi in un altro fatto, dotato di una parziale autonomia: per esercitare l’azione esecutiva non basta provare d’essere creditore, ma occorre munirsi di uno specifico documento, il “titolo esecutivo”; per partecipare al riparto ci si deve insinuare nella procedura entro un termine fissato dalla legge; per votare nel concordato è necessario sottoporre il credito a un accertamento, [continua ..]


9. Il profilo funzionale: la tutela d'interessi

Le tecniche hohfeldiane, se aggiornate, sono dotate di una grande forza esplicativa nel descrivere la struttura delle situazioni giuridiche complesse. Nell’applicarle, tuttavia, si deve essere consapevoli dei loro limiti: a) innanzi tutto, è chiaro che la conoscenza di un istituto giuridico si ottiene attraverso un processo d’apprendimento, che si svolge per tappe successive e tendeal­l’infinito. La ricerca, nel suo avanzare, mette in evidenza sempre nuovi profili, che magari non erano emersi da una prima indagine. Tali profili spesso richiedono una disciplina più articolata, dapprima a livello ermeneutico, poi anche a livello normativo. Il “grappolo” non è un’entità statica: può arricchirsi di nuovi chicchi e di nuovi racimoli, come può vederli deperire; b) in secondo luogo, si deve considerare che la ricostruzione della struttura di un istituto non esaurisce i compiti del giurista. È importante sapere “com’è fatto” un rap­porto obbligatorio o un diritto di proprietà. Ma poi, per capire come i predetti istituti funzionano all’interno di un ordinamento concreto, è necessario conoscere molte altre cose: in che modo si determina l’esatto contenuto d’una prestazione; quale importanza deve avere l’inadempimento per mettere in moto certe forme di reazione sul piano giuridico; quali i tempi dei processi, cui s’affida la tutela giurisdizionale dei diritti; quali le propensioni dei giudici, quando mettono a confronto interessi con­trapposti; quali strade, sul piano giudiziario, appaiono percorribili, e quali risultano troppo accidentate, per poter confidare nel conseguimento di un risultato utile; c) proprio questi ultimi rilievi richiamano l’attenzione su una distinzione che occorre tenere presente nell’esaminare la materia. Il lemma “diritto” in senso soggettivo fa riferimento, infatti, a due cose molto diverse tra loro: l’insieme di poteri e immunità riconosciuti dall’ordinamento a una determinata persona; la pretesa che certi interessi siano presi in considerazione dall’ordinamento come degni di tutela. Una parte della dottrina ha segnalato questa distinzione contrapponendo alle cosiddette situazioni hohfeldiane (che comprenderebbero tutti i diritti di natura patrimoniale, già strutturati secondo gli schemi visti [continua ..]


10. I mutamenti intervenuti nella struttura del rapporto obbligatorio

I rilievi svolti nelle pagine precedenti mostrano come la possibilità di qualificare certi grappoli di poteri e immunità come “diritti soggettivi” non è incompatibile con una più o meno accentuata variabilità della loro struttura, purché sussistano certi re­quisiti comuni, certe rassomiglianze di famiglia, che consentano d’inquadrarli in una categoria unitaria. La proprietà può assumere varie forme (Pugliatti); il potere di disporre di beni d’interesse artistico è molto più limitato dell’analogo potere riferito ai beni di consumo; i crediti sono assoggettati a regimi particolari, che vengono in una certa misura modificati quando la pretesa è incorporata in un titolo negoziabile; marchi e brevetti possono essere sottoposti a regimi differenziati; l’avviamen­to, sebbene sia una qualità dell’azienda dotata di un indiscutibile valore economico, è protetto solo in maniera indiretta. Nonostante tali differenze di disciplina, vi sono dei principi generali applicabili, almeno in parte, a tutte le situazioni soggettive: l’azionabilità delle pretese davanti al giudice civile; la tendenziale applicabilità della tutela aquiliana; la tendenziale disponibilità e rinunciabilità delle situazioni soggettive attive; l’assoggettabilità (anche qui tendenziale) delle predette situazioni soggettive all’azione esecutiva dei creditori del titolare, e via dicendo. Certo, si deve rinunciare all’idea che il diritto soggettivo consista nella sovranità su una cosa. Sotto questo profilo le concezioni patrimonialistiche dell’obbligazione hanno fallito il bersaglio: da una visione “sovranista”, ancora imperniata sulla signoria della volontà, si deve passare a un’ottica “funzionalista”, nella quale si riconosce l’esigenza di mediare tra interessi e valori di varia natura. Resta, tuttavia, il fatto che il diritto soggettivo si presenta come una risposta a specifiche istanze di tutela, che vengono riconosciute dallo Stato come un mondo altro da sé, assegnato alla sfera di competenza (non all’arbitrio) dei privati. L’elasticità delle nuove categorie dovrebbe rassicurare: non vi è alcuna grave controindicazione a definire come “diritti soggettivi” anche i [continua ..]


11. Il ruolo del patrimonio come garanzia dell'obbligazione

Le ragioni di un così radicale mutamento di regime sono di carattere economico e possono essere facilmente individuate. Mi limito a elencare le più evidenti. A) Innanzi tutto, è cambiato il ruolo della responsabilità patrimoniale. L’econo­mia industriale era caratterizzata da investimenti cospicui, effettuati con ingentimasse di capitale di rischio: si riteneva che solo in questo modo si potesse dare la necessaria stabilità alle imprese, che potevano anche finanziarsi con capitale di credito raccolto sul mercato, ma solo entro limiti rigidamente fissati dalla legge. L’economia finanziaria ha ribaltato tale concezione, perché fa affidamento più sulla redditività del­l’affare che sulle caratteristiche patrimoniali del soggetto finanziato. Da qui gli interventi normativi volti a ridurre al minimo il capitale delle società dotate di personalità giuridica, fino ad azzerarlo per quelle di minori dimensioni. Tutto ciò ha prodotto notevoli economie sul versante dei costi (giacché ogni immobilizzazione di ricchezza è una spesa) e ha consentito una maggiore dinamicità del mercato, soprattutto sul versante delle start-up innovative. Tuttavia, se il capitale di rischio è esiguo, non ci si può lamentare del fatto che la garanzia patrimoniale tenda anch’essa a azzerarsi, e che le eventuali perdite, alla fine, ricadano per intero sul ceto creditorio (al riguardo Floriano d’Alessandro ha parlato – nella sostanza, non ricordo con esattezza le sue parole – di “contenitori usa e getta”, che non varrebbe la pena recuperare). B) Tale inconveniente è, poi, aggravato dal fatto che le procedure esecutive (individuali e collettive) comportano un mutamento di destinazione dei beni aziendali, i quali, invece di restare al servizio dell’impresa, vengono reimmessi sul mercato, per trovare nuove utilizzazioni. Il fenomeno è noto da tempo: si suole osservare, infatti, che il fallimento, con la sua forza disgregativa, compromette il valore dell’avvia­mento e di molti altri beni immateriali (marchi, brevetti, know-how e via dicendo). A ben guardare, però, il problema è di portata più ampia, giacché il mutamento di destinazione riduce il valore di scambio di tutti i beni, compresi gli [continua ..]


12. Le nuove forme di tutela dei crediti

Quanto precede rende evidenti le ragioni della profonda evoluzione (probabilmente irreversibile) che sta subendo il diritto delle crisi d’impresa, ma non dissipa idubbi e le preoccupazioni segnalate sopra: i crediti sono ancora diritti soggettivi? o non s’atteggiano, ormai, come semplici interessi legittimi? Lo schema del grappolo di poteri serve a sdrammatizzare il quesito, in due opposte direzioni: a) da un lato, chiarisce che le riforme hanno eliminato alcune immu­nità, di cui prima godeva il creditore, ma non hanno mortificato (vedremo subito per quale motivo) la sua aspettativa a ricevere almeno in parte, e per quanto possibile, la prestazione dovuta o un suo surrogato; b) dall’altro lato, mette in evidenza che la distinzione tra diritti soggettivi e interessi legittimi non rispecchia, nel nostro ordinamento, una diversa essenza delle due situazioni soggettive, ma dipende dal modo (ovviamente arbitrario) in cui è organizzata la loro tutela, compreso il ricorso a un’ap­posita giurisdizione, dotata di proprie liturgie e tradizioni ermeneutiche. Il primo punto è particolarmente importante ai nostri fini. È certamente vero che il creditore, in tutte le ipotesi dianzi elencate, viene privato di alcune immunità, soprattutto in merito alla facoltà di scegliere tra la liquidazione del patrimonio responsabile e l’accettazione di una soluzione alternativa, nella quale la crisi viene superata facendo ricorso a stime patrimoniali e a piani di ristrutturazione aziendale. È altrettanto vero, però, che anche il debitore subisce analoghi sacrifici, giacché viene sottoposto a controlli molto invasivi in merito ai criteri di gestione dell’impresa. L’a­dempimento dei debiti non viene più garantito dall’esistenza di un adeguato patrimonio responsabile, ma dall’adozione di certe forme organizzative (la cosiddetta cor­porate governance) e dalla rilevazione (sempre ex ante) di una serie di indici, che legittimano interventi correttivi sulla gestione dell’impresa. Mentre fino a qualche tempo fa – per non squarciare il velo di riservatezza che doveva avvolgere la sfera patrimoniale del debitore – si aspettava che la crisi deflagrasse, e cioè che emergesse da specifici fatti esteriorisintomatici dello stato d’insolvenza, adesso si cerca [continua ..]


13. I crediti sono diventati interessi legittimi?

Il secondo punto avrebbe bisogno di un’indagine ancora più penetrante, ma non è specificamente legato alla nostra ricerca. In una prospettiva hohfeldiana è chiaro che le differenze tra un diritto soggettivo e un interesse legittimo non possono essere cercate sul piano delle essenze, bensì su quello delle discipline che danno un contenuto concreto alle predette forme di tutela. Trattandosi di misure “ottriate” dal­l’ordinamento, quest’ultimo le può conformare come meglio crede. L’interprete dovrebbe solo prenderne atto, giacché i linguaggi formalizzati non servono a imporre modelli di presunta razionalità dell’agire, ma servono a descrivere in maniera sempre più puntuale la struttura degli istituti di diritto positivo. Possono individuare antinomie e lacune, non suggerire soluzioni per eliminarle. Il ragionamento sarebbe parzialmente diverso, se per “diritto soggettivo” si intendesse la realizzazione piena e assoluta di certe esigenze, individuali o collettive. In tale prospettiva – nella quale la locuzione acquista una coloritura enfatica, suggerita, per altro, dal linguaggio ordinario – l’espressione “interesse legittimo” assumerebbe un significato diverso dal termine “diritto”, giacché sembrerebbe implicare un rapporto di subordinazione tra la posizione da tutelare e un interesse di rango superiore: la prima potrebbe essere presa in considerazione solo nei limiti ritenuti compatibili con la salvaguardia del secondo. Se si assume quest’angolo visuale, si deve riconoscere che nel diritto privato vi sono molte situazioni nelle quali si chiede al giudice d’effettuare un bilanciamento tra interessi e valori contrapposti; ed è ovvio che tale bilanciamento può essere effettuato solo con il ricorso a criteri di ragionevolezza, un po’ come accade nel campo della discrezionalità amministrativa. In tale ottica si potrebbe sostenere che i crediti stanno scivolando dalla zona dei diritti, a protezione piena, verso la zona degli interessi legittimi, nei quali la tutela del creditore è subordinata a quella di altri interessi, considerati preminenti (lo sviluppo economico, i livelli occupazionali, e via dicendo). Un’inclinazione a rendere recessiva la tutela dei creditori è stata sempre presente in una [continua ..]


14. Ragionevolezza e proporzionalità degli interventi autoritativi

I rilievi che precedono permettono di cogliere le ragioni di fondo di un’altra mo­difica intervenuta nella struttura dei rapporti giuridici. La Corte di Strasburgo – co­me, del resto, molte altre Corti Supreme – nel valutare la legittimità degli interventi normativi in materia di diritti patrimoniali, ha insistito su un punto: i legislatori, ai vari livelli, possono intervenire sulla conformazione della proprietà o del credito, purché il sacrificio inflitto ai titolari delle predette situazioni soggettive sia necessario per conseguire un risultato di pubblica utilità e proporzionato all’obiettivo da raggiungere. In questo modo, il principio di ragionevolezza è penetrato fin nel midollo del diritto soggettivo. Questa constatazione mette in chiaro come una certa discrezionalità sia immanente in ogni potere sovrano, giacché anche il riconoscimento di un “diritto” – nel senso più tradizionale del termine – non implica l’adesione a un modello precostituito di tutela. Proprietà e crediti non sono dotati di una struttura costante – la piena signoria su un bene della vita – ma possono essere variamente conformati e possono subire anche in corso d’opera delle mutilazioni, purché, in questo secondo caso, si rispetti il criterio della “ragionevolezza” dell’intervento normativo. Il problema, dunque, si sposta, perché occorre accertare (come è già accaduto nel campo dei diritti reali) quale sia il confine invalicabile, oltre il quale un intervento ablatorio di poteri e immunità sarebbe inammissibile, perché non supportato da criteri di proporzionalità e ragionevolezza. Se prendessimo lo spunto dai recenti interventi legislativi in tema di concordato, potrebbe sembrare che il predetto limite – per quanto concerne i rapporti obbligatori – sia costituito dalla percentuale di soddisfo che i creditori avrebbero ottenuto qualora, invece d’accettare una soluzione negoziale della crisi, avessero insistito per la liquidazione coattiva dei beni del debitore. Per dirla con parole più semplici: se Tizio potesse ricavare solo 30 dal fallimento (o dalla vendita forzata del bene ipotecato), non potrebbe lamentarsi qualora, in sede di concordato, gli si attribuisse un importo uguale o maggiore. Guardando a come il [continua ..]


15. Gli apporti esterni nel concordato

La conclusione alla quale siamo pervenuti nel precedente paragrafo potrebbe sembrare lapalissiana. Tuttavia, come spesso accade nella vita, non sempre ciò chesembra logico a prima vista continua ad apparire tale dopo una più approfondita riflessione. Lo spunto per un riesame del problema viene offerto dai recenti interventi normativi (v. ora la formulazione dell’art. 90, 4° comma, degli schemi di decreti delegati elaborati dalla seconda commissione Rordorf) che impongono al debitore – qualora scelga di non continuare l’impresa in proprio e di non cedere neppure un ramo dell’a­zienda – di mettere sul piatto della bilancia della proposta concordataria un apporto di risorse esterne (conferite da terzi, o provenienti, se si tratta di società dotate di auto­nomia patrimoniale perfetta, dal patrimonio personale del socio), al fine d’innalzare la percentuale offerta ai creditori chirografari, che comunque non potrebbe scendere sotto una certa soglia. La norma ha lo scopo, all’apparenza encomiabile, d’indurre il debitore a preferire il concordato con continuità aziendale alle altre tradizionali forme di accordo (l’offer­ta di una percentuale o la cessione di tutti i beni), che di solito portano alla cessazione dell’impresa e alla disgregazione dell’azienda. A ben guardare, però, si tratta di una disposizione cervellotica. Il concordato ha assunto, da tempo, la specifica funzione di mettere a disposizione delle parti uno strumento che persegue, con costi minori, risultati equivalenti a quelli di una liquidazione giudiziale dei beni del debitore: non si vede, pertanto, da dove promani la necessità, per il debitore, di procurarsi risorse aggiun­tive. L’unica risposta plausibile è che il legislatore avrebbe maturato, nei confronti de­gli imprenditori insolventi, una totale sfiducia, che lo avrebbe indotto a sospettare una frode perpetrata ai danni del ceto creditorio. In altri termini, il debitore avrebbe accumulato un tesoretto, tenendolo ben nascosto agli occhi degli organi della procedura e, quindi, dovrebbe restituirlo, almeno in parte, per ottenere l’agognata esdebitazione. Sugli obiettivi perseguiti dal legislatore e sullo strumento utilizzato per conseguirli (anche le percentuali di soddisfo, infatti, appaiono arbitrarie) vi sarebbe molto da dire. Il concordato con [continua ..]


16. Una proposta conciliativa

Il quesito non è banale, e non è di agevole soluzione. Come si sa, infatti, quan­do per un certo bene (il complesso aziendale e il resto dell’attivo) vi è un unico ven­ditore (la massa dei creditori, che ha bisogno di liquidare il patrimonio responsabile per soddisfarsi sul ricavato) e un unico immaginario acquirente (il debitore, che si dichiara disposto a “riacquistare” a un prezzo forfetario i propri beni, sui quali incombe, in prospettiva, un vincolo di destinazione a favore della massa) non è facile determinare – in assenza di un vero mercato, ove si incontrino molte domande e molte offerte – il “giusto” prezzo della transazione. Nel nostro caso si possono tracciare due confini, uno inferiore e uno superiore, che delimitano la fascia delle soluzioni praticabili: il primo è dato da quanto si ricaverebbe attraverso liquidazione coattiva dei beni; il secondo dalla percentuale minima di decurtazione del passivo (che è strettamente rapportata al fabbisogno finanziario dell’impresa), senza la quale il debitore non riuscirebbe ad adempiere le obbligazioni e a tenere in vita l’impresa. Se si scendesse al di sotto del primo limite, i creditori non avrebbero alcuna convenienza ad accettare la proposta di concordato; se si salisse al di sopra del secondo, l’accordo non potrebbe essere adempiuto con le sole risorse aziendali, non sarebbe fattibile. Tenendo conto di questi rilievi, mi sembra che l’unica soluzione a portata di ma­no – che non voglia imporre limiti arbitrari al debitore (come le percentuali stabilite dalla legge in vigore), o comprimere oltre il necessario l’interesse dei creditori – possa essere individuata nel chiedere ai periti, che si occupano della convenienza e della fattibilità del concordato, di tracciare (non una ma) due soglie, che determinino l’area degli accordi possibili. In questo modo, i creditori avrebbero la possibilità d’ap­prezzare con maggiore consapevolezza i termini economici della proposta, e il debitore sarebbe costretto a mostrare un maggior grado di flessibilità nel condurre le trattative. Non sarebbe una panacea, ma forse si eliminerebbe lo sconcio di proposte troppo riduttive, che poi sono la causa remota dell’atteggiamento tenuto dal legislatore. La risposta normativa (ispirata dai giudici, [continua ..]


17. Apporti esterni nel concordato con cessione dei beni?

Trovare la soluzione ottimale di problemi così complessi è come tentare la quadratura del cerchio. Sono consapevole del fatto che i rimedi potrebbero essere molto diversi da quello che mi sono permesso di suggerire. Le norme dettate per la risoluzione bancaria prevedono, ad esempio, la possibilità di rivedere, dopo un certo lasso di tempo, l’importo delle somme da attribuire alle varie classi di pretese. A ben guar­dare, però, nemmeno questa soluzione sarebbe immune da critiche, perché allungare ancora il periodo in cui l’impresa viene sottoposta a controllo farebbe rassomigliare sempre più il concordato preventivo a una piccola amministrazione straordinaria, con conseguenze non tutte positive. A ogni buon conto, una maggiore trasparenza in merito alle condizioni economiche del debitore e dell’impresa dovrebbe essere salutata con favore. Un ultimo rilievo. L’articolato predisposto dalla “seconda commissione Rordorf” in attuazione della legge delega sulla riforma del diritto concorsuale mantiene un at­teggiamento negativo nei confronti dei concordati di “liquidazione” (art. 89, 4° com­ma), ma poi disciplina – sempre con soluzioni che prevedono un controllo pubblicistico sulla liquidazione del patrimonio responsabile del debitore – il concordato con “cessione dei beni” ai creditori (cfr. l’art. 90, 3° comma, lett. a), e l’art. 119). Al riguardo, sorgono spontanee due domande: anche questa forma di concordato deve garantire alla massa una percentuale minima di soddisfo? Anche qui vige la regola secondo la quale occorre procurarsi un apporto esterno? Al primo quesito mi sentirei di rispondere in maniera affermativa, prendendo lo spunto dalle vecchie norme (art. 160, 2° comma, n. 2, L. Fall. del ’42), ove si consentiva l’accesso a questo tipo di concordato «sempreché la valutazione … [dei] be­ni faccia fondatamente ritenere che i creditori possano essere soddisfatti almeno nella misura indicata al n. 1», e cioè, in allora, del quaranta per cento. Lo stesso criterio si potrebbe applicare al “nuovo” concordato, rispettando il margine del venti per cento previsto dai progetti di decreti delegati, e fermo restando che l’accordo non sarebbe soggetto a risoluzione, qualora il soddisfacimento dei creditori [continua ..]


18. L'azzeramento delle partecipazioni sociali

Gli interventi autoritativi volti a superare la crisi di un’impresa non colpiscono solo i creditori, ma anche i soci della società insolvente; non incidono solo sui crediti, ma anche sulle partecipazioni sociali. In ciò non vi è nulla di strano, giacché il capitale di rischio deve essere azzerato prima che le perdite si estendano al capitale di credito: i soci hanno il diritto di far proprio l’utile prodotto dall’impresa, ma non possono mettere le mani sul patrimonio della società, se non dopo il soddisfacimento integrale dei creditori. Anche in questo caso, però, ciò che a prima vista sembra logico e irrefutabile, a un più attento esame appare molto più incerto e problematico. Per dare un’idea delle difficoltà concettuali, alle quali intendo alludere, mi permetto di trarre spunto da un’esperienza vissuta. Una società con due soci, uno di maggioranza e uno di minoranza, aveva iniziato un’attività alberghiera con notevoli costi di start up (almeno tre anni di gestione in perdita, prima che l’albergo raggiungesse quella percentuale di copertura giornaliera dei posti letto, che è necessaria per produrre un utile). Proprio questa circostanza aveva fatto sì che i conferimenti di capitale venissero via via assorbiti dalle perdite di bilancio, con il conseguente azzeramento delle partecipazioni sociali. Il susseguirsi delle operazioni sul capitale aveva portato, a un certo punto, a eliminare il socio di minoranza dalla compagine sociale, perché costui non aveva potuto seguire il “gioco” al rialzo imposto dalla “controparte”, con la conseguenza di lasciare quest’ultima come unica padrona del campo. Sul piano giuridico, la tecnica utilizzata dal socio di maggioranza per sbarazzarsi del rivale non faceva una grinza, perché è indiscutibile che gli aumenti di capitale a catena per coprire le perdite andavano fatti, e che la materiale impossibilità del socio di minoranza d’effettuare i conferimenti aggiuntivi non poteva bloccare lo sviluppo dell’impresa. Da un punto di vista morale, tuttavia, non si può tacere che, se il socio di maggioranza avesse fin dall’inizio dotato la società (come poteva) dei mezzi necessari per superare l’intera fase dello start up, il socio di minoranza avrebbe conseguito una quota di [continua ..]


19. Concordati e autonomia privata

Il problema di come trattare i soci, quando la crisi dell’impresa ha eroso l’intero capitale, non si pone solo per il bail-in bancario, ma anche nei normali concordati: an­che queste procedure, infatti, intervengono sul passivo della società, senza toccare l’attivo. Al riguardo viene spontaneo domandarsi come sia possibile lasciare intonse le quote e le azioni, mentre i creditori vengono sacrificati: com’è possibile, cioè, che il socio o i soci di maggioranza restino in sella, pur avendo provocato il danno, mentre i soggetti pregiudicati dalla loro mala gestio sono costretti a assorbire le perdite derivanti dall’insolvenza. Il problema può essere agevolmente risolto quando ci si trova di fronte a un concordato di stampo tradizionale: il risultato dell’accordo può sembrare ingiusto, ma è il frutto di un’intesa tra le parti. Se i creditori si accontentano di essere pagati in percentuale, è perché ritengono la proposta allettante: si fidano più delle capacità del debitore, che dei risultati di una procedura di liquidazione. In altri termini: è vero che il debitore percepisce un vantaggio apparentemente ingiusto; ma l’ottiene sulla base di un atto d’autonomia privata; lo riceve come premio per le sue (vere o supposte) capacità di risanare l’impresa, o di vendere i beni, con risultati migliori di quelli conseguibili attraverso l’intervento di un ipotetico curatore fallimentare. La questione si fa più seria quando il concordato viene omologato facendo ricorso al cram-down per superare il dissenso di una classe di creditori. Ci si può chiedere, infatti, come mai lo Stato possa imporre con la forza – attraverso la decisione del giudice – un sacrificio definitivo ai soggetti danneggiati dal dissesto, mentre manda assolto, lasciandolo alla guida dell’impresa, chi ha provocato il disastro. Secondo alcuni scrittori, qui vi sarebbe una palese violazione dell’ordine dei privilegi, giacché, in un’ideale distribuzione di quanto si ricava dalla liquidazione del patrimonio responsabile, i soci (come prenditori d’ultima istanza) potrebbero ricevere qualcosa solo dopo l’integrale soddisfacimento dei creditori, compresi quelli postergati (e infatti [continua ..]


20. Il trasferimento di risorse nei gruppi

Le considerazioni svolte nel precedente paragrafo sono utili per affrontare un altro problema: se, nel concordato di gruppo, sia possibile trasferire risorse da una società a un’altra, per riorganizzarla e consentirle di ripartire. Secondo una parte della dottrina questa soluzione resterebbe preclusa dall’art. 2740 c.c., ai sensi del quale «Il debitore risponde dell’adempimento delle obbligazioni con tutti i suoi beni presenti e futuri». Tale norma impedirebbe di trasferire ad altra società del gruppo una parte del patrimonio della società – per così dire – più ricca, finché i creditori di quest’ultima non siano stati integralmente soddisfatti. Molto probabilmente ci troviamo di fronte ad una reazione contro gli atteggiamenti di alcuni aziendalisti che, pur di salvare l’impresa, calpestano ogni principio giuridico e, spesso, sono anche in grado di condizionare il legislatore, imponendo soluzioni assai poco rispettose delle regole imposte dal Codice civile ai fini dell’imputa­zione dei diritti, della distribuzione delle risorse e della sopportazione delle perdite. Sotto questo profilo, sono il primo a sostenere che la situazione di crisi non può costituire un buon motivo per confondere in un’unica massa l’attivo e il passivo delle società del gruppo, come se facessero capo a un unico soggetto (salvo casi eccezionali, nei quali i patrimoni si sono già fusi, di fatto, a causa del mancato rispetto delle regole d’imputazione dei beni e delle perdite). Sarà pur vero che, dal punto di vista economico, l’impresa di gruppo è unitaria, ma – dal punto di vista giuridico – fa capo a una pluralità di soggetti, ciascuno dei quali ha un proprio patrimonio e una propria massa di creditori, che hanno fatto specifico affidamento su certi beni e non possono subire, sui medesimi, il concorso di creditori di altre società. In fondo, la tecnica dell’articolazione di un’attività economica in una pluralità di centri d’imputazione di diritti e di obblighi serve a realizzare una frammentazione del rischio, al fine di renderlo più sopportabile per il debitore e per i creditori (soprattutto i grandi finanziatori, che possono articolare meglio il sistema delle garanzie). Proprio per questo motivo, però, se si accetta ex ante la [continua ..]


21. I creditori muniti di garanzie su patrimoni altrui

Dopo aver passato in rassegna alcuni problemi legati all’uso di strumenti autoritativi per la soluzione delle crisi d’impresa, vorrei esaminare – sempre in maniera molto fugace – alcuni interventi operati sul tessuto della vecchia legge fallimentare dalla legge delega per la riforma del diritto concorsuale e dagli schemi di decreti d’attuazione, che per ora giacciono presso le commissioni parlamentari, in attesa del loro destino. A ben guardare, infatti, l’esigenza di non intaccare il “nucleo duro” del diritto di credito incide anche su altre questioni, delle quali occorre avere una maggiore consapevolezza. Come primo approccio alla materia, mi permetto di richiamare l’attenzione sul trattamento da riservare ai creditori muniti di garanzie, reali o personali, prestate da terzi. La questione si è guadagnata il centro della scena per vie traverse. Alcuni tribunali si erano chiesti se i predetti creditori potessero essere ammessi al voto nel concordato, o non dovessero essere esclusi, perché si sarebbero trovati in una situazione di conflitto d’interessi. La legge delega per la riforma del diritto concorsuale ha sciolto il dubbio nel senso di farli votare in un’apposita classe. Sommessamente ritengo che il quesito era stato mal posto fin dall’inizio, e che la soluzione scelta dalla legge sia peggiore della pura e semplice esclusione dal diritto di voto. Cerco di spiegare le ragioni del mio dissenso. Sul primo punto, la risposta è semplice: i creditori muniti di garanzie prestate da terzi non si trovano in una situazione di conflitto d’interessi nel concordato, giacché il loro tornaconto li induce pur sempre a cercare d’ottenere il massimo dalla procedura alla quale partecipano. Se si vuole, il loro interesse in tale direzione potrebbe essere attenuato dal fatto di poter giocare anche su altri tavoli per conseguire quanto loro è dovuto. Tale attenuazione non implica, tuttavia, una spinta a giocare al ribasso (come, invece, potrebbe accadere per i creditori muniti di diritti di prelazione sul patrimonio del debitore, i quali in genere hanno interesse a evitare il fallimento, o a chiuderlo subito, sia per scongiurare le revocatorie, sia per accelerare il corso delle procedure esecutive sui beni posti a loro garanzia) e, comunque, se così fosse (magari come conseguenza di legami del tutto estranei al [continua ..]


22. L'insinuazione al passivo del credito da compensare

Un problema, apparentemente lontano, ma sotto certi versi simile a quello discusso nel precedente paragrafo, è se i crediti da opporre in compensazione al fallimento debbano passare al vaglio dell’ammissione al passivo. A prima vista, la soluzione af­fermativa potrebbe sembrare ovvia, per un’esigenza di controllo della pretesa secondo gli stessi criteri utilizzati per gli altri creditori (una sorta di par condicio processuale); a guardar meglio, però, la risposta, anche in questo caso, non è per nulla sicura, perché la compensazione viene inquadrata, di solito, tra le forme di autotutela esecutiva (Bongiorno) e quindi dovrebbe sfuggire, per definizione, a ogni tipo d’ac­certamento giudiziale. In altri termini, si potrebbe ragionare come segue. Il legislatore (art. 56 L. Fall.) ha eccezionalmente consentito al terzo di far valere la compensazione anche nel fallimento, infrangendo la regola generale, secondo la quale dalla data dell’apertura del concorso tutto il patrimonio del debitore si cristallizzerebbe e dovrebbe restare immobilizzato a favore della massa. Una volta ammessa tale eccezione, non si potrebbe trascurare, tuttavia, che la compensazione, a norma di legge (art. 1242 c.c.), ha effetto retroattivo, giacché estingue pro concurrenti quantitate i debiti contrapposti “dal giorno della loro coesistenza”. Di conseguenza – poiché l’estinzione si sarebbe già verificata alla data del fallimento – in sede di formazione dello stato passivo non vi sarebbe più nulla da accertare, se non l’eventuale credito residuo del terzo. Qualora, invece, la compensazione facesse restare un debito a carico di quest’ul­timo, la curatela potrebbe farlo valere in giudizio, ma anche qui per la parte compensata il giudice dovrebbe limitarsi ad accertare un effetto estintivo che si è idealmente prodotto alla data della coesistenza dei crediti e, quindi, ben prima della dichiarazione di fallimento. Il credito, per il quale si vorrebbe imporre l’ammissione al passivo, si sarebbe estinto, pertanto, sia pure in base a una finzione, prima dell’aper­tura del concorso. Già questi rilievi lasciano intendere la difficoltà del tema, se lo si dovesse affrontare sul piano teorico. Volendo restare sul piano pratico, forse è opportuno ricor­dare che [continua ..]


23. La funzione di garanzia della compensazione

Per avere un’idea più chiara dell’intera problematica, occorre partire da alcune premesse. La compensazione è stata sempre considerata con sfavore dalla giurispru­denza, perché indubbiamente porta a una violazione della par condicio creditorum. Sul punto, però, è necessario un approfondimento, per almeno due motivi: a) innanzi tutto, la predetta violazione della par condicio è solo apparente, giacché costituisce il rifesso della funzione di garanzia svolta dall’istituto; chi eroga un finanziamento o una prestazione a credito, sapendo di poter contare sulla possibilità d’opporre in compensazione un proprio debito (già sorto, o di cui è prevedibile la futura insorgenza), fa legittimo affidamento sulla possibilità di sfuggire, almeno in parte, ai rischi dell’inadempimento; b) in secondo luogo, tale funzione di garanzia (sia pure impropria e occasionale) assume un particolare rilievo nei rapporti tra imprenditori, perché costoro, data la frequenza degli scambi intrattenuti con le controparti commerciali, sono particolarmente esposti al pericolo d’insolvenza dei loro debitori e, quindi, hanno bisogno di specifiche forme di tutela (basti ricordare, al riguardo, la funzione del conto corrente ordinario: artt. 1823 ss. c.c.). Del resto, l’applicazione del principio di parità di trattamento presuppone una so­stanziale omogeneità tra le posizioni dei soggetti che vi sono sottoposti, mentre la si­tuazione di chi ha avuto solo rapporti sporadici e occasionali con l’impresa decotta è molto diversa da quella di chi vi ha intrattenuto rapporti reiterati o continuativi. Per questi ultimi, l’applicazione meccanica della par condicio provocherebbe un effetto moltiplicatore dei rischi e delle perdite, con le conseguenze (già sperimentate nel cam­po della revoca delle rimesse su conti correnti bancari) che hanno portato il legislatore a “addolcire” la disciplina delle revocatorie (art. 67, 3° comma, lett. b), L. Fall.), anche con riguardo ai rapporti di fornitura (ivi, art. 70, 3° comma). Partendo da tali premesse sulla funzione economica dell’istituto, si può agevolmente comprendere come mai la Suprema Corte abbia avallato, sia pure con qualchetentennamento, [continua ..]


24. Per una cultura dei diritti patrimoniali fondati su principi di giustizia
Fascicolo 3-4 - 2018